QUICUMQUE VULT SALVUS ESSE, ANTE OMNIA OPUS EST, UT TENEAT CATHOLICAM FIDEM

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venerdì 29 giugno 2012

Santa Messa e nuova evangelizzazione

Attualità e riflessioni

Rito della Messa: Forma straordinaria e nuova evangelizzazione



L’articolo che segue, di Mons. Athanasius Schneider, il vescovo autore di Sua Eccellenza il vescovo Athanasius SchneiderDominus est“, è stato pubblicato sull’edizione dell’estate 2012 di “The Latin Mass“. Il vescovo Schneider esamina i punti di rottura tra la liturgia preconciliare e postconciliare considerandoli vere e proprie “piaghe liturgiche”, anche perché, per la maggior parte, non sono nemmeno previste dala Sacrosanctum Concilium. Propone anche il ristabilimento di un minimo di continuità, che considera condizione imprescindibile per la nuova evangelizzazione, vista la corrispondenza tra lex orandi e lex credendi.
Rito della Messa: Forma straordinaria e nuova evangelizzazione.
 S. Ecc. Mons. Athanasius Schneider

Volgendo lo sguardo verso Cristo
Per parlare correttamente di nuova evangelizzazione, è necessario in primo luogo a volgere lo sguardo verso Colui che è il vero evangelizzatore, cioè Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, il Verbo di Dio fatto Uomo. Il Figlio di Dio venne su questa terra per espiare e riparare il più grande peccato, il peccato per eccellenza. E questo peccato, il peccato per eccellenza dell’umanità, consiste nel rifiuto di adorare Dio e nel rifiuto di mantenere per lui il primo posto, il posto d’onore. Questo peccato da parte dell’uomo consiste nel non prestare attenzione a Dio, non avendo più il senso della convenienza delle cose, o anche il senso dei dettagli relativi a Dio e dell’adorazione che gli è dovuta, nel non voler vedere Dio, e nel non voler a inginocchiarsi davanti a Dio.
Per chi ha un tale atteggiamento, l’incarnazione di Dio è una fonte di imbarazzo e di conseguenza anche la presenza reale di Dio nel mistero eucaristico è motivo di imbarazzo, come lo è la centralità della presenza eucaristica di Dio nelle nostre chiese. Infatti l’uomo peccatore vuole il centro della scena per se stesso, sia all’interno della Chiesa che durante la celebrazione eucaristica. Vuole essere visto, per farsi notare.
 Per questo motivo Gesù Eucaristia, Dio incarnato, presente nel tabernacolo sotto la forma eucaristica, viene messo da parte. Anche la rappresentazione del Crocifisso sulla croce in mezzo all’altare durante la celebrazione verso il popolo è un imbarazzo, perché potrebbe nascondere il volto del sacerdote. Pertanto, l’immagine del Crocifisso al centro dell’altare, così come Gesù Eucaristia nel tabernacolo nel centro dell’altare, è un imbarazzo. Di conseguenza, la croce e il tabernacolo sono spostati a lato. Durante la messa, l’assemblea deve essere in grado di vedere il volto del sacerdote in ogni momento, e lui si diverte a mettersi letteralmente al centro della casa di Dio… E se per caso Gesù, realmente presente a noi nella Santissima Eucaristia, è ancora lasciato nel suo tabernacolo al centro dell’altare perché il Ministero di monumenti storici, anche in un regime ateo, ha proibito il suo spostamento per la conservazione del patrimonio artistico, il prete, spesso, durante tutta la celebrazione eucaristica, non si fa scrupolo di voltargli le spalle.
Quante volte gli adoratori di Cristo buoni e fedeli, piangendo, hanno gridato, nella loro semplicità e umiltà: “Dio ti benedica, Ministero dei monumenti storici! Almeno ci hanno lasciato Gesù al centro della nostra chiesa “.

La Messa è destinata a dare gloria a Dio, non agli uomini
Solo sulla base dell’adorazione e della glorificazione di Dio la Chiesa può adeguatamente proclamare la parola di verità, vale a dire evangelizzare. Prima che il mondo abbia mai sentito Gesù, il Verbo eterno fatto carne, predicare e annunciare il Regno, Egli ha adorato in silenzio per trenta anni. Questa rimane sempre la legge per la vita della Chiesa e la sua azione, nonché per tutti gli evangelizzatori. “Dal modo in cui viene trattata la liturgia si decide il destino della fede e della Chiesa”, ha detto il cardinale Ratzinger, il nostro attuale Santo Padre Benedetto XVI. Il Concilio Vaticano II ha voluto ricordare alla Chiesa quale realtà e quali azioni sarebbero dovute essere al primo posto nella sua vita.
Per questa ragione la prima parte degli atti del Concilio è stata dedicata alla liturgia. Il Concilio ci dà i seguenti principi: nella Chiesa, e quindi nella liturgia, l’uomo deve essere orientato verso il divino ed essere subordinato ad esso, allo stesso modo il visibile in relazione l’invisibile, l’azione in relazione alla contemplazione, la città presente in relazione a quella futura, a cui aspiriamo (vedi Sacrosanctum Concilium, 2). Secondo l’insegnamento del Concilio Vaticano II nostra liturgia terrena partecipa in anticipo alla liturgia celeste della città santa di Gerusalemme (ibid., 2).
Tutto ciò che riguarda la liturgia della Santa Messa, vale a dire le preghiere di adorazione, di ringraziamento, di espiazione e di petizione che il sommo ed eterno Sacerdote ha presentato al Padre, deve quindi servire a esprimere chiaramente la realtà del sacrificio di Cristo.

La forma straordinaria e la nuova evangelizzazione
Il rito e ogni dettaglio del Santo Sacrificio della Messa deve incentrarsi sulla glorificazione e adorazione di Dio, insistendo sulla centralità della presenza di Cristo, sia nel segno e la rappresentazione del Crocifisso, sia nella sua presenza eucaristica nel tabernacolo, e in particolare al momento della Consacrazione e della Santa Comunione. Più questo è rispettato, meno l’uomo è protagonista nella celebrazione, e tanto meno la celebrazione appare come un cerchio chiuso in se stesso; piuttosto [è un cerchio] aperto a Cristo e avanza verso di lui come in un corteo, con il sacerdote alla sua testa; come una processione liturgica ha il pregio di rispecchiare il sacrificio di adorazione di Cristo crocifisso; i frutti derivanti dalla glorificazione di Dio e ricevuti nelle anime dei presenti saranno più ricchi; Dio li onorerà di più.
Quanto più il sacerdote e i fedeli, nelle celebrazioni eucaristiche, cercano sinceramente la gloria di Dio piuttosto che quella degli uomini e non cercano di ricevere la gloria gli uni dagli altri, più Dio li considererà, concedendo che le loro anime possano partecipare più intensamente e con frutto alla gloria e all’onore della sua vita divina.
Oggi, in vari luoghi della terra, ci sono molte celebrazioni della Santa Messa che, si potrebbe dire, rappresentano un inversione del Salmo 113:9: “Non a te, o Signore, ma al nostro nome dà gloria” [chissà che cosa ne direbbe il Card. Siri! n. d. t.]. A tali celebrazioni si riferiscono le parole di Gesù: “Come potete credere, voi che ricevete gloria gli uni dagli altri, e non cercate la gloria che viene dall’unico Dio?” (Gv 5:44).

I sei principi della riforma liturgica
Il Concilio Vaticano II stabilì i seguenti principi in merito a una riforma liturgica:
1. Durante la celebrazione liturgica, l’umano, il temporale, e l’azione devono essere diretti verso il divino, l’eterno, e la contemplazione, il ruolo dei primi deve essere subordinato a questi ultimi (Sacrosanctum Concilium, 2).
2. Durante la celebrazione liturgica, dovrà essere incoraggiata la consapevolezza che la liturgia terrena partecipa alla liturgia celeste (Sacrosanctum Concilium, 8).
3. Non ci deve essere assolutamente alcuna innovazione; quindi nessuna nuova creazione dei riti liturgici, in particolare nel rito della Messa, se non per un guadagno vero e certo per la Chiesa, e a condizione che tutto sia fatto con prudenza e, se ciò è garantito, che nuove forme sostituiscano organicamente quelle esistenti (Sacrosanctum Concilium, 23).
4. Il rito della Messa deve essere tale che il sacro sia affrontato in modo più esplicito (Sacrosanctum Concilium, 21).
5. Il latino deve essere conservato nella liturgia, soprattutto alla Santa Messa (Sacrosanctum Concilium, 36 e 54).
6. Il canto gregoriano ha un posto d’onore nella liturgia (Sacrosanctum Concilium, 116).
I Padri conciliari hanno visto le loro proposte di riforma come la continuazione della riforma di san Pio X (Sacrosanctum Concilium 112 e 117) e del servo di Dio Pio XII, anzi, nella Costituzione liturgica, l’Enciclica Mediator Dei di Pio XII è quella citata più spesso.
Tra le altre cose, il Papa Pio XII ha lasciato alla Chiesa un importante principio della dottrina riguardante la Santa Liturgia, vale a dire la condanna di quello che viene chiamato archeologismo liturgico, le cui proposte sono in gran parte sovrapponibili a quelle del sinodo giansenista e tendente al protestantesimo di Pistoia (vedi Mediator Dei, 63-64).

È un dato di fatto che richiamino alla mente il pensiero teologico di Martin Lutero.
Per questa ragione, il Concilio di Trento aveva già condannato le idee liturgiche protestanti, in particolare l’enfasi esagerata sulla nozione di banchetto nella celebrazione eucaristica a scapito del suo carattere sacrificale e la soppressione di segni univoci di sacralità come espressione del mistero della liturgia (Concilio di Trento, sessione 22).
Le dichiarazioni dottrinali del Magistero sulla liturgia, in questo caso quelle del Concilio di Trento e dell’ enciclica Mediator Dei e che si riflettono in una prassi liturgica secolare, o addirittura millenaria, queste dichiarazioni, dico, formano una parte di quell’elemento della Santa Tradizione che non si può abbandonare senza incorrere in gravi danni spirituali. Il Vaticano II ha confermato queste dichiarazioni dottrinali sulla liturgia, come si può vedere leggendo i principi generali del culto divino nella Costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium.
Come esempio di errore nel pensiero e nella prassi liturgica, Papa Pio XII cita la proposta di dare all’altare la forma di un tavolo (Mediator Dei 62).
Se già Papa Pio XII rifiutò l’altare a forma di tavolo , si può immaginare quanto più egli avrebbe rifiutato la proposta per una celebrazione attorno a un tavolo versus populum!
Quando la Sacrosanctum Concilium (n. 2) insegna che, nella liturgia, la contemplazione ha la priorità e che tutta la celebrazione deve essere orientata ai misteri celesti (ibid. 2 e 8), riecheggia fedelmente la seguente dichiarazione del Concilio di Trento: “E perché la natura umana è tale, che non facilmente viene tratta alla meditazione delle cose divine senza piccoli accorgimenti esteriori, per questa ragione la chiesa, pia madre, ha stabilito alcuni riti, che cioè, qualche tratto nella messa, sia pronunziato a voce bassa, qualche altro a voce più alta. Ha stabilito, similmente, delle cerimonie, come le benedizioni mistiche; usa i lumi, gli incensi, le vesti e molti altri elementi trasmessi dall’insegnamento e dalla tradizione apostolica, con cui venga messa in evidenza la maestà di un sacrificio così grande, e le menti dei fedeli siano attratte da questi segni visibili della religione e della pietà, alla contemplazione delle altissime cose, che sono nascoste in questo sacrificio.“(Sessione 25, capitolo 5).
Gli insegnamenti magisteriali della Chiesa citati sopra, in particolare la Mediator Dei, erano certamente riconosciuti come pienamente valida dai Padri del Concilio. Pertanto essi devono continuare ad essere pienamente validi per tutti i figli della Chiesa anche oggi.

Le cinque piaghe del Corpo mistico di Cristo liturgico
Nella lettera a tutti i vescovi della Chiesa cattolica che Benedetto XVI ha inviato il 7 luglio 2007 con il Motu Proprio Summorum Pontificum, il Papa ha fatto la seguente importante dichiarazione: “Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni precedenti era sacro, resta sacro e grande anche per noi.” Nel dire questo, il Papa ha espresso il principio fondamentale della liturgia che hanno insegnato il Concilio di Trento, Papa Pio XII e il Concilio Vaticano II.
Guardando senza pregiudizi e obiettivamente la prassi liturgica della stragrande maggioranza delle chiese di tutto il mondo cattolico in cui viene utilizzata la forma ordinaria del rito romano, nessuno può onestamente negare che i sei principi liturgici del Vaticano II siano costantemente violati, o quasi, nonostante l’affermazione erronea che questa sia la prassi liturgica voluta dal Vaticano II. Ci sono un certo numero di aspetti concreti della prassi liturgica attualmente prevalente nel rito ordinario che rappresentano una rottura vera e propria rispetto ad una pratica liturgica costante e millenaria. Con questo intendo le cinque pratiche liturgiche che citerò a breve, che possono essere definite le cinque piaghe del corpo mistico liturgico di Cristo. Si tratta di ferite, perché costituiscono una rottura violenta con il passato in quanto minimizzano il carattere sacrificale (che in realtà è il carattere centrale ed essenziale della Messa) e propongono l’idea del banchetto. Tutto questo riduce i segni esteriori di adorazione divina, perché mette in evidenza in misura molto minore la dimensione celeste ed eterna del mistero.
Ora le cinque ferite (tranne per le nuove preghiere dell’Offertorio) sono quelli che non sono previsti nella forma ordinaria del rito della Messa, ma sono stati portati in esso attraverso la pratica di una moda deplorevole.

A) La prima e più ovvia ferita è la celebrazione del Sacrificio della Messa in cui il sacerdote celebra con la faccia rivolta verso i fedeli, soprattutto durante la preghiera eucaristica e la consacrazione, il momento più alto e più sacro del culto che è dovuto a Dio. Questa forma esteriore corrisponde, per sua stessa natura, più che altro al modo in cui si insegna in una classe o si condivide un pasto. Siamo in un circolo chiuso. E questa forma assolutamente non è conforme al momento della preghiera, meno ancora a quella di adorazione. Eppure il Vaticano II non ha voluto affatto questa forma, né la stessa è mai stata raccomandata dal Magistero dei Papi dopo il Concilio.
Papa Benedetto XVI ha scritto nella prefazione al primo volume delle sue opere raccolte: “L’idea che il sacerdote e il popolo in preghiera devono guardarsi l’un l’altro reciprocamente è nata solo in età moderna ed è completamente estranea al cristianesimo antico. Infatti, il sacerdote e il popolo non affrontano la loro preghiera gli uni verso gli altri, ma insieme la rivolgono all’unico Signore. Per questo motivo, nella preghiera, guardano nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico del ritorno del Signore, o, dove questo non fosse possibile, verso una immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso l’alto“.
La forma di celebrazione in cui tutti volgono il loro sguardo nella stessa direzione (Conversi ad orientem, ad Crucem, ad Dominum) è anche menzionata nelle rubriche del nuovo rito della Messa (cfr. Ordo Missae, 25, 133, 134). La cosiddetta celebrazione versus populum non corrisponde certo all’idea della Santa Liturgia come indicato nella dichiarazione della Sacrosanctum Concilium, 2 e 8.
B) La seconda ferita è la comunione nella mano, che ora è diffusa in quasi tutto il mondo. Non solo questo modo di ricevere la comunione non è in alcun modo menzionato dai Padri del Concilio Vaticano II, ma è stato in realtà introdotto da un certo numero di vescovi in disobbedienza alla Santa Sede e nonostante il voto a maggioranza negativo dai vescovi nel 1968. Papa Paolo VI la legittimò solo più tardi, a malincuore, e in particolari condizioni.
Papa Benedetto XVI, dal Corpus Christi 2008, distribuisce la Comunione ai fedeli in ginocchio e sulla lingua, sia a Roma che in tutte le chiese locali che visita. E così sta mostrando a tutta la Chiesa un chiaro esempio di Magistero pratico in una questione liturgica. Poiché la maggioranza qualificata dei vescovi rifiutò la Comunione nella mano come qualcosa di nocivo tre anni dopo il Concilio, tanto più lo avrebbero fattoi Padri conciliari!
C) La ferita è rappresentata dalle nuove preghiere di Offertorio. Si tratta di una creazione del tutto nuova e non erano mai state utilizzate nella Chiesa. Esse non esprimono tanto il mistero del sacrificio della Croce quanto l’evento di un banchetto e in tal modo ricordano le preghiere del pasto del sabato ebraico. Nella tradizione più che millenaria della Chiesa, in Oriente e in Occidente, le preghiere Offertorio sono sempre stati espressamente orientate al mistero del sacrificio della Croce (cfr. ad esempio Paul Tirot, Histoire des Prières d’Offertoire dans la liturgie romaine du VIIème XVIème au siècle [Roma, 1985]). Non vi è dubbio che una tale creazione, assolutamente nuova contraddice la chiara formulazione del Concilio Vaticano II che afferma: “novità ne fiant. . . novae formae ex Formis iam exstantibus organice crescant “(Sacrosanctum Concilium, 23).
D) La quarta ferita è la totale scomparsa del latino nella stragrande maggioranza delle celebrazioni eucaristiche nella forma ordinaria in tutti i paesi cattolici. Si tratta di una infrazione diretta contro le decisioni del Concilio Vaticano II.
E) La quinta ferita è l’esercizio da parte delle donne dei servizi liturgici di lettore e di accolito, come pure l’esercizio di questi stessi servizi in abiti laici, quando, durante la Santa Messa entrano nel coro direttamente dallo spazio riservato ai fedeli. Questa usanza non è mai esistita nella Chiesa, o almeno non è mai stato la benvenuta. Essa conferisce la celebrazione della Messa cattolica il carattere esterno di informalità, il carattere e lo stile di un gruppo piuttosto profano. Il Concilio di Nicea, già nel 787, proibiva tali pratiche quando ha stabilito il canone seguente: “Se qualcuno non è ordinato, non è consentito per lui a fare la lettura dall’ambone durante la santa liturgia” (can. 14 ). Questa norma è stata costantemente seguita nella Chiesa. Solo i suddiaconi e i lettori sono stati autorizzati a fare la lettura durante la liturgia della Messa. Se lettori e accoliti non sono presenti, uomini o ragazzi con i paramenti liturgici possono farlo, non le donne, dal momento che il sesso maschile rappresenta simbolicamente l’ultimo anello di ordini minori dal punto di vista dell’ordinazione non sacramentale di lettori e accoliti.
I testi del Vaticano II non parlano della soppressione degli ordini minori e del suddiaconato o dell’introduzione di nuovi ministeri. Nella Sacrosanctum Concilium, al n. 28, il Concilio distingue il ministro dal fedele durante la celebrazione liturgica, e stabilisce che ciascuno può fare solo ciò che gli compete per la natura della liturgia. Il numero 29 menziona i ministrantes, cioè i chierichetti che non sono stati ordinati. In contrasto con loro, ci sono, in linea con i termini giuridici in uso in quel tempo, i Ministri, vale a dire coloro che hanno ricevuto un ordine, sia esso maggiore o minore.

Il Motu Proprio: Come porre fine alla rottura nella Liturgia
Nel Motu Proprio Summorum Pontificum, Papa Benedetto XVI stabilisce che le due forme del rito romano devono essere considerate e trattate con lo stesso rispetto, perché la Chiesa rimane la stessa prima e dopo il Concilio. Nella lettera di accompagnamento del Motu Proprio, il Papa vuole le che due forme si arricchiscano reciprocamente.
Inoltre egli auspica che la nuova forma “sia in grado di dimostrare, più chiaramente di quanto non sia avvenuto finora, quella sacralità che attrae molti all’antico uso“.
Quattro delle ferite liturgiche, o pratiche sfortunate (celebrazione versus populum, comunione nella mano, totale abbandono del latino e del canto gregoriano, e intervento delle donne per il servizio di lettore e di accolito), non hanno in sé e per sé nulla a che fare con la forma ordinaria della Messa ed inoltre sono in contraddizione con i principi liturgica del Vaticano II. Se fossero abolite queste pratiche si tornerebbe al vero insegnamento del Concilio Vaticano II. E poi, le due forme del rito romano, verrebbero ad essere considerate assai più vicine, e così la forma straordinaria e la nuova evangelizzazione poiché, almeno esternamente, non si parlerebbe di alcuna rottura né apparirebbe alcuna rottura nella Chiesa tra il pre e il postconcilio.
Per quanto riguarda le nuove preghiere dell’Offertorio, sarebbe auspicabile che la Santa Sede le sostituisse con le preghiere corrispondenti della forma straordinaria, o almeno consentisse l’uso di quest’ultimo ad libitum. In questo modo la rottura tra le due forme sarebbe evitata non solo esternamente ma anche internamente. La rottura nella liturgia è proprio ciò che i Padri conciliari non volevano. I verbali del Concilio attestano questo, perché nel corso dei duemila anni di storia della liturgia, non c’è mai stata una rottura liturgica e, di conseguenza, non ci può essere. D’altra parte deve esserci continuità, così come si conviene per il Magistero.
Le cinque piaghe del corpo liturgico della Chiesa che ho menzionato gridano per la guarigione. Esse rappresentano una rottura che si può confrontare con l’esilio ad Avignone.
La situazione di una rottura così forte in un’espressione della vita della Chiesa è ben lungi dall’essere irrilevante, allora con l’assenza dei papi da Roma, oggi lcon a rottura visibile tra la liturgia prima e dopo il Concilio. Questa situazione grida in effetti, per la guarigione. Per questo motivo abbiamo bisogno di nuovi santi oggi, di una o più Sante Caterina di Siena.
Abbiamo bisogno di vox populi fidelis che richiedano la soppressione di questa rottura liturgica. La tragedia in tutto questo è che, oggi come i nel tempo dell’esilio di Avignone, la grande maggioranza del clero, soprattutto nei suoi ranghi più alti, è contenta di questa rottura.
Prima che ci si possano aspettare frutti efficaci e duraturi dalla nuova evangelizzazione, deve avere corso all’interno della Chiesa un processo di conversione. Come possiamo chiamare gli altri alla conversione quando, tra coloro che hanno risposto alla vocazione, non si è ancora verificata una convincente conversione nei confronti di Dio, internamente o esternamente? Il sacrificio della Messa, il sacrificio di adorazione di Cristo, il più grande mistero della Fede, l’atto più sublime di adorazione si celebra in un circolo chiuso, in cui le persone si cercano a vicenda.
Quello che manca è la conversio ad Dominum. È necessaria, anche esternamente e fisicamente, dal momento che nella liturgia Cristo è trattata come se non fosse Dio, e non Gli sono rivolti chiari segni esteriori dell’adorazione che è dovuta a Dio solo, perché i fedeli ricevono la Santa Comunione in piedi e, per giunta, la prendono in mano come un qualsiasi altro alimento, l’afferrano con le dita e la portano in bocca. Vi è qui una sorta di arianesimo o semi-arianesimo eucaristico.
Una delle condizioni necessarie per una nuova e fruttuosa evangelizzazione sarebbe la testimonianza di tutta la Chiesa nel culto liturgico pubblico. Dovrebbero essere osservati almeno questi due aspetti del culto divino:
1) Che la Santa Messa sia celebrata in tutto il mondo, anche in forma ordinaria, in una conversio ad Dominum interna e quindi necessariamente anche esterna .
2) Che i fedeli si inginocchino davanti a Cristo al momento della Santa Comunione, come san Paolo chiede quando si fa menzione del nome o della persona di Cristo (Fil 2,10), e che lo ricevano con l’amore più grande e il più grande rispetto possibile, come si addice a Lui come Dio vero.

Grazie a Dio, Benedetto XVI ha preso due misure concrete per avviare il processo di un ritorno dall’esilio di Avignone della liturgia, cioè, il Motu Proprio Summorum Pontificum e la reintroduzione del tradizionale rito della Comunione.
Vi è ancora bisogno di molte preghiere e forse di una nuovo santa Caterina da Siena per le altre misure da adottare al fine di guarire le cinque piaghe sul corpo liturgico e mistico della Chiesa e perché Dio sia venerato nella liturgia con quell’amore, quel rispetto, quel senso del sublime che da sempre sono le caratteristiche della Chiesa e del suo insegnamento, in particolare nel Concilio di Trento, nell’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII, nella Costituzione Sacrosanctum Concilium del Vaticano II e nella teologia della liturgia di Papa Benedetto XVI, nel suo magistero liturgico, e nel Motu proprio di cui sopra.

Nessuno può evangelizzare a meno che non abbia adorato, o meglio ancora a meno che non adori costantemente e doni Dio, Cristo nell’Eucaristia, vera priorità nel suo modo di celebrare e in tutta la sua vita. Infatti, per citare il cardinale Joseph Ratzinger: “E’ nel trattamento della liturgia che si decide il destino della fede e della Chiesa.

da “The Latin Mass Magazine” vol. 21 n. 2, estate 2012.

lunedì 11 giugno 2012

Il suono delle Campane a Venezia


 
http://www.camperisti.it/b/russia71/campane.jpg
 
 
PATRIARCATO DI VENEZIA
Prot. 178/12
Il significato del suono delle campane
è delineato dal n. 1455 del “Benedizionale”:


«Risale all'antichità l'uso di ricorrere a segni o a suoni particolari per convocare il popolo
cristiano alla celebrazione liturgica comunitaria per informarlo sugli avvenimenti più
importanti della comunità locale, per richiamare nel corso della giornata a momenti di
preghiera, specialmente al triplice saluto alla Vergine Maria. La voce delle campane esprime dunque in certo qual modo i sentimenti del popolo di Dio quando esulta e quando piange, quando rende grazie o eleva suppliche, e quando, riunendosi nello stesso luogo, manifesta il mistero della sua unità in Cristo Signore».

Da tempo immemorabile l’uso delle campane è espressione cultuale della comunità
ecclesiale, strumento di richiamo per le celebrazioni liturgiche e per altre manifestazioni della pietà popolare, nonché segno che caratterizza momenti significativi della vita della comunità cristiana e di singoli fedeli. Esso rientra nell’ambito della libertà religiosa, secondo la concezione propria della Chiesa cattolica e gli accordi da essa stipulati con la Repubblica italiana. Come tale, la Chiesa intende tutelarlo e disciplinarlo in modo esclusivo, con attenzione alle odierne condizioni sociali.

Il Patriarcato di Venezia già con la cost. 468 del Sinodo diocesano del 1957 e con una
lettera circolare del Vicario generale del maggio 1961 si era dato delle disposizioni
prudenziali circa il suono della campane, ora, però, considerate le esigenze e i ritmi della vita, si ritiene opportuno emanare una normativa più dettagliata affinché un uso così caro al nostro popolo, che deve essere fonte di serenità e strumento di spiritualità, non diventi al contrario, se non adeguatamente regolato, causa obiettiva di molestia e disagio.

Pertanto, con il presente Decreto
STABILISCO

che tutte le chiese che si trovano nel territorio del Comune di Venezia
si attengano alle seguenti disposizioni:

1. Il suono delle campane è consentito per i seguenti scopi:
- indicare le celebrazioni liturgiche e le altre manifestazioni di preghiera e di pietà
popolare;
- essere segno, in particolari circostanze, che accompagna le suddette celebrazioni;
- scandire i momenti più importanti della vita della comunità cristiana (feste, lutti,
ecc.);
- richiamare al mattino, a mezzogiorno e alla sera il saluto a Maria;
- ricordare, ove se ne è conservato l’uso, la passione e morte del Signore ogni venerdì
non festivo alle ore 15,00 (eccetto il Venerdì Santo).
Altri utilizzi potranno essere richiesti e consentiti, in via eccezionale, da parte dell’Ordinario diocesano.

2. Il suono delle campane, per gli scopi sopra indicati, è consentito:
- nei giorni feriali dalle ore 7,00 alle ore 21,30;
- nei giorni festivi dalle ore 8,00 alle ore 21,30. Ove si celebra una S. Messa alle ore
8,00 è permesso il “sonello” di invito alla celebrazione, purché non suoni prima delle
7,45.
Costituiscono eccezioni la Veglia pasquale e la Notte di Natale.

3. Gli orari indicati nel n. 2 devono essere rispettati anche per gli eventuali rintocchi
dell’orologio campanario, qualora il suo utilizzo sia di competenza della parrocchia o di altro ente ecclesiastico a cui spetta l’ufficiatura dell’edificio di culto. I rintocchi dovranno scandire soltanto le ore, e non essere ripetuti.

4. La durata del suono effettivo per l’avviso delle celebrazioni liturgiche feriali e festive non deve mai superare i 3 minuti, con eccezione delle maggiori solennità (Pasqua, Pentecoste, Natale, Patrono).
L’avviso delle celebrazioni liturgiche feriali sia soltanto uno (30 o 15 minuti prima dell’inizio delle stesse, secondo la consuetudine locale), due per quelle festive (anche 5 minuti prima del loro inizio).
La durata del suono per altri scopi (per l’Angelus o in occasione di particolari solennità, della festa patronale, della morte di un fedele, ecc.), non deve comunque superare quella
tradizionale ed essere ispirata a criteri di moderazione.

5. L’intensità del suono – a maggior ragione in caso di impianti elettronici – deve essere
regolata in modo tale che le campane mantengano la funzione di segno (siano quindi
percepibili da parte dei fedeli), con attenzione al contesto ambientale in cui l’edificio di culto è inserito.

6. Unici responsabili, di fronte al Patriarca e alla legge civile, sono i Parroci o i legali
rappresentanti degli altri enti ecclesiastici a cui spetta l’ufficiatura dell’edificio di culto.

7. Il suono delle campane del campanile della Basilica di San Marco, data la sua peculiarità, continua ad essere regolato da norme speciali.

Le presenti disposizioni vengano pubblicate sul settimanale diocesano e comunicate
tempestivamente a tutti i parroci e rettori di chiese interessati. Esse entreranno in vigore alle ore 0,01 del 24 giugno 2012.
Nonostante qualsiasi cosa in contrario.
Venezia, 9 giugno 2012
Firmato + Francesco Moraglia
Patriarca di Venezia