QUICUMQUE VULT SALVUS ESSE, ANTE OMNIA OPUS EST, UT TENEAT CATHOLICAM FIDEM

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venerdì 24 agosto 2012

Tagaste e sant'Agostino


Immagine dell'olivo millenario detto di sant'Agostino a Tagaste
L'olivo cosiddetto di sant'Agostino


TAGASTE



La città romana
Costruita dai Romani attorno al I sec. a. C. Tagaste è sorta nello stesso luogo dove si estende oggi l'attuale cittadina di Souk Ahras.
Le tracce delle vestigia d'antichità purtroppo sono ancora sotto terra o sono state distrutte dalle nuove costruzioni. Secondo l'archeologo M. Bergugger, nel 1850, la parte più importante delle rovine della città romana è situata fra l'odierna città di Diar Zerga e una zona dei vecchi sobborghi.
Questa tesi fu sostenuta anche dal Dottor Rouquette, un esploratore che visitò Tagaste nel 1903. Senza tuttavia specificare dove e come, egli lasciò scritto: "sotto le macerie di antiche costruzioni furono scoperte oggi le terme pubbliche di Tagaste e tutto intorno dei muri di abitazioni ornate di frammenti di mosaico e altri oggetti di metallo e d'argilla."

  APPROFONDIMENTI

Il piccolo Municipium di Tagaste in Numidia ma poco lontano dai confini dell'Africa proconsolare, sorgeva sulle colline lungo la riva a sinistra del Bagradas (Medjerda): i colli, a non grande distanza, s'innalzano a vere montagne, fino ai 1400 metri, e il fiume con le sue inondazioni periodiche rende feconda la vallata. Era un piccolo centro, ma posto all'incrocio di due strade che dal mare raggiungevano, a Naraggara a sud-est e a Tipsa a sud-ovest, la grande via interna per Cartagine a Cirta. Ai Numidi che abitavano la regione si erano da tempo mescolati i Fenici, e il punico era sopravvissuto, come e forse più che in tante regioni dell'Africa, anche alla dominazione romana. Questa aveva portato con sè il latino, come lingua non solo ufficiale e della gente colta, ma del commercio e degli usi quotidiani; se abbondano le iscrizioni bilingui (come del resto quelle libiche) sta di fatto che tra gli uditori di Agostino nella non lontana Ippona ve n'erano parecchi che conoscevano il punico.
E se i nomi punici abbondano, non sono rari quelli latini: spesso il medesimo personaggio dimostra, nei diversi elementi del suo nome, la mescolanza delle razze e delle culture.
Tagaste era un piccolo centro, in mezzo a una regione agricola, e discretamente popolosa. Il dominio romano aveva rispettato i suoi diritti cittadini, e per lo meno li aveva ristabiliti abbastanza presto: se la città aveva certamente amministrazione autonoma al tempo di Settimo Severo, il fatto che Plinio il Vecchio la nomini come una delle trenta città libere dell'Africa, fa ritenere che Tagaste fosse già Municipium al tempo di Traiano, e forse ottenne questo diritto da lui.

  APPROFONDIMENTI

     Numidia romana
Aveva già un vescovo sotto Massimiano e Diocleziano; ma non sembra che il cristianesimo vi dovesse fiorire molto prima di Costantino, se verso la metà del secolo vi si trovavano ancora numerosi pagani, che continuavano ad adorare le vecchie divinità fenicie, confuse o identificate col nome e, almeno in parte, nel culto, con quelle di Roma dominatrice. Doveva essere un centro molto tranquillo, che non attirava l'attenzione delle autorità supreme: abitato da una popolazione di carattere tradizionalista, come sono per lo più i piccoli proprietari, senza velleità novatrici di nessun genere e senza ambizioni (da A. Pincherle, Sant'Agostino d'Ippona vescovo e teologo, ed. Laterza 1930, 6-7).


La Casa di Agostino
Oggi non è possibile individuare esattamente la posizione della casa di proprietà di Patrizio, dove Agostino visse da giovane e dove ritornò dopo il suo viaggio in Italia.
Alcuni archeologi la pongono a est della città attuale, in un'area compresa fra il Mausoleo di Sidi Messaoud e l'ospedale centrale. E' una zona costeggiata dall'oued Zerga, uno degli affluenti della Medjerda, il fiume principale di questa regione che in età punica si chiamava Bagradas. Di lì passa la strada che porta a Bou-Hadjar, l'antica località romana di Lamy.

Iscrizione cristiana proveniente dalla basilica di Tagaste
Iscrizione cristiana proveniente dalla basilica di Tagaste


L'olivo di sant'Agostino
A Tagaste si conserva un gigantesco olivo che da tempo è oggetto di culto e che viene chiamato, secondo la tradizione, l'olivo di sant'Agostino. Sfidando il tempo e gli anni continua i suoi rami continuano a fiorire e perpetuano il suo ricordo, resistendo all'oblio. Nel 2006 in occasione dei 750 anni di fondazione dell'Ordine agostiniano, da Tagaste è partita una fiaccolata internazionale che ha toccato Ippona, Cartagine (Tunisi), Malta, Roma, Allumiere, Ostia, Cagliari, Genova, Casei Gerola, Cassago, Milano e Pavia, tutte località legate alla vita del santo.
In tale circostanza il sindaco di Tagaste ha staccato un ramo da questo olivo per farlo consegnare a ogni sindaco dei paesi toccati dalla fiaccolata come simbolo di pace e di dialogo.


Il Museo di sant'Agostino
Il Museo che porta il suo nome è alloggiato nella cripta di una vecchia chiesa e conserva alcuni interessanti reperti archeologici.


Iscrizione cristiana
A Tagaste è stata rinvenuta una lapide cristiana che testimonia lo sviluppo del cristianesimo anche in questa cittadina romana di cui divenne vescovo Alipio, l'intimo amico di Agostino. L'iscrizione proviene dalla basilica di Tagaste e riporta la scritta:
BEATAM ECCLESIAM CATOLICAM EX OFICINA FORTUNATIM.

venerdì 17 agosto 2012

Il Tabernacolo sull'Altare Maggiore

"Tamquam cor in pectore": il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento
Sull'altare maggiore il tabernacolo era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa

di p. Uwe Michael Lang



foto: Duomo di Siena, Tabernacolo di Lorenzo di Pietro, detto "Il Vecchietta"


Tamquam cor in pectore: il tabernacolo eucaristico prima e dopo il Concilio di Trento
"Il tabernacolo sull'altare maggiore era come il cuore spirituale e spaziale della Chiesa"
di p. Uwe Michael Lang

Negli ultimi anni la ricerca storica ha dedicato notevole attenzione al rapporto che esiste tra liturgia e architettura. Molti studiosi si sono concentrati sulla tarda antichità e sul Medio Evo, ma l'interesse si sta volgendo anche verso i periodi del Rinascimento e della Riforma cattolica prima e dopo il Concilio di Trento (1545 - 1563), come risulta evidente dagli atti di una conferenza tenuta al Kunsthistorisches Institut a Firenze nel 2003. Il redattore del volume, Joerg Stabenow, identifica due sviluppi principali che trasformarono gl'interni tipici delle chiese nei secoli XV e XVI.
Il primo rimosse quegli elementi che dividevano l'edificio sacro in diverse sezioni, creando così uno spazio unificato. Per contrasto, si strutturarono le chiese medievali con un complesso sistema di pareti divisorie, soprattutto la cancellata che separava la navata dal coro. Il secondo interessò il tabernacolo che, collocato in posizione centrale sull'altare maggiore, venne adottato come forma ordinaria di riserva eucaristica, divenendo il punto focale dell'architettura sacra di stile barocco.

Il termine "tabernaculum" era già usato nel Medio Evo per indicare il ricettacolo per il Santissimo Sacramento. Guglielmo Durando rileva nel suo libro "Rationale divinorum officiorum" del 1282 - e che ebbe un grande influsso nel suo tempo - che, a imitazione dell'Arca dell'Alleanza e della Tenda del convegno (Esodo 25 -26, 33, 7 -11 e altrove), "in alcune chiese è posta un'arca o tabernacolo (archa seu tabernaculum), in cui si custodisce il Corpo del Signore con reliquie". L'associazione biblica è significativa, poiché la Tenda del convegno rappresentava la presenza di Dio fra il popolo d'Israele nel deserto. Inoltre, il prologo del Vangelo di Giovanni afferma che il Verbo divino " si fece carne e venne ad abitare (letteralmente: "piantò la sua tenda") in mezzo a noi" (Gv. 1, 14). Infine, nell'Apocalisse viene evocata la Gerusalemme celeste con le parole: "Ecco la tenda di Dio con gli uomini!", che nella Vulgata latina recita: "Ecce tabernaculum Dei cum hominibus!" (Ap. 21, 3).

L'ubicazione di un tabernacolo eucaristico fisso sull'altare maggiore è generalmente associata alle riforme liturgiche che si effettuarono dopo il Concilio di Trento, soprattutto da parte di San Carlo Borromeo, i cui sforzi per rinnovare la vita religiosa nella sua Arcidiocesi di Milano divennero esemplari per tutta la Chiesa Cattolica. Tuttavia, tale pratica era già stata promossa da Vescovi riformatori prima di Trento e si può rintracciare nella Toscana del XV secolo.

In diverse chiese di questa regione italiana erano stati introdotti tabernacoli su altare maggiore, come la cattedrale di Volterra (1471) e la cattedrale di Prato (1487); forse l'esempio più noto è il trasferimento del vecchio tabernacolo del Vecchietta all'altare maggiore della Cattedrale di Siena nel 1506, dove prese il posto della "Maestà" di Duccio. La nuova disposizione fu vigorosamente promossa da Gian Matteo Giberti, Vescovo di Verona dal 1524 al 1543. Le "Consitutiones" di Giberti, pubblicate nel 1542 con l'approvazione di Papa Paolo III, miravano ad una riforma della vita ecclesiastica nella sua diocesi e anticiparono in molti modi gli sviluppi post-tridentini.

Una parte importante del programma pastorale di Giberti era proprio la collocazione della riserva del Santissimo Sacramento sull'altare maggiore al centro della chiesa, dove veniva esposto alla venerazione di clero e laici. Nelle sue "Consitutiones" scriveva il vescovo, evocando vari versetti di salmi: "E come gli occhi di una schiava alla mano della sua padrona (Ps. 123, 2), così siano gli occhi di coloro che stanno intorno alla mensa del Signore (Ps. 128, 3), rivolti sempre con timore e tremore verso l'altissimo e preziosissimo sacramento, che è lì sull'altare maggiore; piangano di gioia e si rallegrino piamente nelle loro lacrime, e vedranno com'è buono il Signore (cfr. Ps. 34, 9)".

Con uno schema simile, Pier Francesco Zini nella sua biografia del Giberti, pubblicata a Venezia nel 1555 col titolo "Boni pastoris exemplum ac specimen singulare", scrive che il tabernacolo sull'altare maggiore trova una posizione che è "come il cuore nel petto" (tamquam cor in pectore). Si voleva che il tabernacolo fosse il cuore della chiesa sia in senso spaziale che spirituale. Giberti applicò questo principio alla sua cattedrale di Verona e lo prescrisse per tutte le Chiese parrocchiali della sua Diocesi.

Il Concilio di Trento, che si celebrò dal 1545 al 1563, non diede alcuna direttiva specifica sull'architettura e gli arredi delle Chiese. Tuttavia i decreti conciliari, affermando il tradizionale insegnamento della Chiesa, diedero chiare indicazioni teologiche sulla costruzione delle nuove Chiese e sulla ristrutturazione di quelle già esistenti. I canoni del Decreto sull'Eucaristia, datato 11 ottobre 1551, frutto della XIII sessione del Concilio, riconfermarono la posizione cattolica di fronte alla critica protestante, soprattutto quella di Martin Lutero che sosteneva che Cristo era presente nel sacramento dell'Eucaristia soltanto durante la vera e propria celebrazione liturgica, quando veniva ricevuto con fede dai comunicandi.

I canoni tridentini ribadirono la dottrina del IV Concilio Laterano del 1215 sulla presenza reale e permanente di Cristo sotto la forma del pane e del vino dopo la loro consacrazione da parte del sacerdote. Ne consegue la necessità di una custodia appropriata e sicura delle ostie consacrate dopo la Messa, utilizzate anche per portare la Santa Comunione agli ammalati. Il canone sette parla in termini apparentemente generali della riserva della Santissima Eucaristia "in sacrario". Nell'uso medievale, il termine "sacrarium" poteva indicare qualsiasi luogo per la riserva eucaristica, compresa la sacrestia. Comunque, nel contesto di Trento, si può ritenere che molti Padri conciliari intendessero per "sacrarium" il tabernacolo d'altare. Un'interpretazione che era già corrente, come si evince dal Sinodo convocato dal Cardinale Reginald Pole, Legato della Santa Sede in Inghilterra, e tenuto a Westminster nel dicembre del 1555 e gennaio del 1556. Il sinodo decretò che la Santissima Eucaristia dovesse essere custodita "o al centro dell'altare o alla sua estremità".

Il Concilio di Trento accentuò anche il ruolo dei vescovi nel realizzare le riforme ecclesiastiche e dispose la pubblicazione di libri liturgici revisionati, opera che fu condotta dai papi negli anni successivi. Tali fattori portarono ad una standardizzazione della vita liturgica, che fece sì che il nuovo modo di ccustodire l'Eucaristia sull'altare maggiore si diffondesse in tutto il mondo cattolico.

Gli storici si sono spesso concentrati sul contributo dato da San Carlo Borromeo (1538 - 1584) allo sviluppo dell'architettura e degli arredi sacri post-tridentini. Borromeo è stato presentato come un modello di Vescovo riformatore, ponendo in atto i decreti tridentini nell'Arcidiocesi di Milano con diligenza esemplare. Senza ridurre il ruolo di questo grande Vescovo, sembrebbe appropriato collocare il suo operato in un più ampio contesto culturale. Il tabernacolo sull'altare maggiore non fu affatto un'innovazione del Borromeo, abbiamo visto infatti che il pensiero teologico che sosteneva tale pratica era già in circolazione da diverso tempo.

Le idee del Borromeo sull'architettura sacra sono espresse in modo succinto nelle sue "Instructiones fabricae et suppellectilis ecclesiasticae" del 1577, composto da un gruppo di autori sotto i suoi auspici. Sulla questione della riserva eucaristica, le "Instructiones" si riferiscono ai decreti del primo Sinodo provinciale di Milano tenuto nel 1565, che stabiliva che in tutte le chiese in cui si custodiva il Santissimo Sacramento, compresa la Cattedrale, questo fosse collocato sull'altare maggiore, a meno che un caso di necessità o una grave ragione non lo impedissero.

L'Arcivescovo di Milano diede l'esempio trasferendo il Santissimo Sacramento dalla sacrestia all'altare maggiore della sua Cattedrale. Le "Instructiones" del Borromeo furono largamente recepite nel periodo post-tridentino, mentre vi era ancora qualche flessibilità sul luogo della riserva eucaristica. Vale la pena notare che il "Cerimoniale Episcoporum" del 1600 raccomandava che il Santissimo Sacramento non si tenesse sull'altare maggiore o su altro altare al quale il vescovo dovesse celebrare la Messa solenne o i Vespri. Tuttavia, non penso che ciò indichi una critica del tabernacolo sull'altare maggiore, come invece ritiene Christoph Jobst nel suo studio magistrale sul tema. La prescrizione non riguarda la disposizione generale della Chiesa, ma le rubriche di celebrazioni specifiche. Al massimo, si potrebbe dedurre che nelle liturgie pontificali si riflettesse l'antica consuetudine della riserva eucaristica separata dall'altare.

Il rituale romano del 1614 ha un paragrafo pertinente nei "Praenotanda" sul Santissimo Sacramento dell'Eucaristia, che recita: "Il tabernacolo sia opportunamente coperto da un baldacchino, e null'altro vi sia contenuto. Sia collocato sull'altare maggiore o su altro altare dove si possa vedere facilmente e possa così rendersi degna adorazione a questo grande Sacramento".

Anche qui c'è flessibilità sulla ubicazione del tabernacolo: può stare sull'altare maggiore o su altro altare della Chiesa che sia appropriato per la venerazione del Sacramento. Istruzioni simili si possono trovare negli atti di molti Sinodi diocesani e provinciali tenutisi nella prima metà del secolo XVII. Per esempio, il Sinodo di Costanza nel 1609 decretò che il Santissimo Sacramento fosse custodito " o sull'altare stesso, secondo l'uso romano, o alla sinistra del coro presso l'altare". In ogni modo, l'ubicazione del tabernacolo sull'altare principale secondo "l'uso romano" fu adottato gradualmente in tutta Europa come parte della Riforma tridentina.

A questo sviluppo contribuì una serie di fattori: innanzi tutto, la chiara e sicura riaffermazione del Concilio della dottrina cattolica della presenza reale di fronte alla critica protestante; secondariamente, la crescente popolarità delle devozioni eucaristiche (Benedizione col Santissimo Sacramento, processioni eucaristiche, la devozione delle Quarantore); in terzo luogo, la fioritura dell'arte e architettura barocche non solo in Europa ma in tutto il mondo cattolico, con un'attenzione speciale nell'esprimere visibilmente le verità di fede, soprattutto la presenza reale; e per ultimo, la standardizzazione dei libri liturgici dopo il Concilio di Trento, con la pratica romana presa a modello per l'intera Chiesa.

E' evidente che tale sviluppo, visto nel suo contesto culturale e artistico, non ebbe inizio con il Concilio di Trento, ma fu parte di una tendenza comune nel Rinascimento e nell'architettura sacra barocca di creare uno spazio unificato, nel quale il tabernacolo sull'altare maggiore era effettivamente, secondo le parole del biografo del Giberti, "tamquam cor in pectore".


The Institute of Sacred Architecture, vol. 15 - spring 2009

traduzione italiana a cura di d. Giorgio Rizzieri
(12/08/2012)


mercoledì 8 agosto 2012

15 Agosto Solennità dell'Assunzione di Maria al Cielo

Il Pancarpium Marianum

1607: regnano felicemente sui Paesi Bassi Spagnoli Alberto d’Austria e Isabella Clara Eugenia di Spagna
Coppia felice dicono. Certamente interessata e aperta ai grandi temi della fede, alle istanze della cultura e dell’arte. Bruxelles divenne importante snodo della cultura e della diplomazia europea.
La loro vicenda si intreccia con quella di un rinomato predicatore e scrittore: padre Giovanni David, gesuita. Questi nel 1607 pubblica un’opera in due parti dedicata alla coppia reale: Paradisum sponsi et sponsae [...] e, come seconda parte dedicata in particolare a Isabella, il Pancarpium Marianum septemplici titulorum serie distinctum [...]. 
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La finalità dell’opera viene esplicitata con chiarezza nel sottotitolo: affinché corriamo dietro il profumo della Beata Vergine e perché Cristo sia formato in noi. Imitando Maria, identificandosi con il suo percorso, ciascuno si trova a sperimentare la verità del detto evangelico che recita: “Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e madre” (Mc 3,35). Chi crede rivive l’esperienza di Paolo: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi!” (Gal 4,19). 

Nell’introduzione padre David cita anche anche la sua fonte patristica: Ambrogio di Milano. Il santo vescovo commentando l’incontro tra il Risorto e la Maddalena afferma: “Allora le disse il Signore: Maria, guardami. Quando non crede è donna, quando comincia a convertirsi è chiamata Maria, cioè riceve il nome di colei che ha partorito Cristo.  E’ infatti un’anima che spiritualmente concepisce Cristo” (De virg.; l. 3). 
Ecco qualche riga introduttiva dell’autore: “Dobbiamo ora osservare che a ragione siamo chiamati non solo semplici madri della nostra vita migliore, come è dimostrato da vari passi della Scrittura, ma anche madri di Cristo e per così dire spirituali Marie. Poiché mentre ci rappresentiamo a imitazione di Cristo, secondo il significato etimologico, o ci studiamo di fare altrettanto con gli altri, noi stessi concepiamo, partoriamo, educhiamo Cristo. Infatti come nel battesimo ci siamo rivestiti di Cristo e siamo divenuti per adozione figli di Dio e fratelli di Cristo, così noi facciamo la stessa cosa in  modo nuovo con la santità di una vita e di un comportamento davvero cristiano” (citazione dal Preambolo nella traduzione di: Testi mariani del secondo millennio, a cura di Angelo Amato, Stefano De Fiores, Roma 2003, 453).

Non inventa nulla dunque padre Giovanni, inserendosi in una delle molte correnti spirituali che attraversano il cristianesimo. Eppure è tutt’altro che scontato il suo procedere rimandando continuamente a Cristo. A volte la spiritualità mariana ha preso sentieri non così chiari. L’autore invece non molla mai la presa: ogni singolo titolo mariano è sempre riferito a Cristo. Maria è donna che non ferma mai lo sguardo su di sé, rimandando sempre Oltre. 
Per introdurre a questo cammino il gesuita sceglie o inventa 50 titoli mariani, raggruppandoli in sette gruppi che identificano diverse fasi della vita spirituale:
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Ogni titolo mariano è corredato da una stampa, che non ha solo funzione estetica. Tra testo e immagine c’è un nesso strettissimo di continuo rimando reciproco. Notate come le lettere a margine del testo tornino nella stampa:
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La prima stampa del Pancarpium è del 1607. Fu un grande successo che oltre alla versione originale latina conobbe anche traduzioni in francese, tedesco e polacco. Arrivò presto anche a Brescia dato che nel 1618 la volta della chiesa era già affrescata con immagini tratte da quel testo. 
Si tratta di somiglianze quasi imbarazzanti se volessimo portare avanti una presunta originalità del Cossali, cui si devono i disegni preparatori mentre l’esecuzione fu subappaltata a un certo Stefano Viviani.
In realtà il pittore e il suo committente, padre Maurizio Luzzari, scelsero di semplificare le immagini del Pancarpium togliendo tutte le parti simboliche retrostanti la scena principale. 
L’altra rilevante operazione del Cossali e del Luzzari fu la scelta di quali titoli utilizzare, ne erano disponibili cinquanta, e in quale ordine. Purtroppo non abbiamo documenti che raccontino questa fase.
P.S.:  puoi leggertelo tutto, in latino, in Google Libri cliccando qui



giovedì 2 agosto 2012

Omelia di Pio XII 29 giugno 1941



Nella tempesta, la tenerezza del Signore per i suoi fanciulli

«Il Padre celeste continua e continuerà a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro».
Così papa Pio XII nella solennità dei santi apostoli e martiri Pietro e Paolo del 1941



In questa solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, il vostro devoto pensiero e affetto, diletti figli della Chiesa cattolica universa, si rivolge a Roma con la strofa trionfale: «O Roma felix, quae duorum Principum – es consecrata glorioso sanguine! / O Roma felice, che sei stata consacrata dal sangue glorioso di questi due Principi!».

Ma la felicità di Roma, che è felicità di sangue e di fede, è pure la vostra; perché la fede di Roma, qui sigillata sulla destra e sulla sinistra sponda del Tevere col sangue dei Principi degli apostoli, è la fede che fu annunziata a voi, che si annunzia e si annunzierà nell’universo mondo. Voi esultate nel pensiero e nel saluto di Roma, perché sentite in voi il balzo della universale romanità della vostra fede.

Da diciannove secoli nel sangue glorioso del primo Vicario di Cristo e del Dottore delle Genti la Roma dei Cesari fu battezzata Roma di Cristo, a eterno segnale del principato indefettibile della sacra autorità e dell’infallibile magistero della fede della Chiesa; e in quel sangue si scrissero le prime pagine di una nuova magnifica storia delle sacre lotte e vittorie di Roma.
Vi siete voi mai domandati quali dovevano essere i sentimenti e i timori del piccolo gruppo di cristiani sparsi nella grande città pagana, allorché, dopo aver frettolosamente sepolti i corpi dei due grandi martiri, l’uno al piede del Vaticano e l’altro sulla via Ostiense, si raccolsero i più nelle loro stanzette di schiavi o di poveri artigiani, alcuni nelle loro ricche dimore, e si sentirono soli e quasi orfani in quella scomparsa dei due sommi apostoli?
Era il furore della tempesta poco prima scatenata sulla Chiesa nascente dalla crudeltà di Nerone; davanti ai loro occhi si levava ancora l’orribile visione delle torce umane fumanti a notte nei giardini cesarei e dei corpi lacerati palpitanti nei circhi e nelle vie. Parve allora che l’implacabile crudeltà avesse trionfato, colpendo e abbattendo le due colonne, la cui sola presenza sosteneva la fede e il coraggio del piccolo gruppo di cristiani. In quel tramonto di sangue, come i loro cuori dovevano provare la stretta del dolore al trovarsi senza il conforto e la compagnia di quelle due voci potenti, abbandonati alla ferocia di un Nerone e al formidabile braccio della grandezza imperiale romana!

Ma contro il ferro e la forza materiale del tiranno e dei suoi ministri essi avevano ricevuto lo Spirito di forza e di amore, più gagliardo dei tormenti e della morte. E a Noi sembra di vedere, alla susseguente riunione, nel mezzo della comunità desolata, il vecchio Lino, colui che per primo era stato chiamato a sostituire Pietro scomparso, prendere fra le sue mani tremanti di emozione i fogli che conservavano preziosamente il testo della Lettera già inviata dall’apostolo ai fedeli dell’Asia Minore e rileggervi lentamente le frasi di benedizione, di fiducia e di conforto: «Benedetto Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, il quale secondo la sua grande misericordia ci ha rigenerati a una viva speranza, mediante la risurrezione di Gesù Cristo... Allora voi esulterete, se per un poco adesso vi conviene di essere afflitti con varie tentazioni... Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio… gettando in Lui ogni vostra sollecitudine, poiché Egli ha cura di voi... Il Dio di ogni grazia, il quale ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, con un po’ di patire vi perfezionerà, vi conforterà e vi renderà saldi. A Lui la gloria e l’impero per i secoli dei secoli!» (1Pt 1, 3.6; 5, 6-7.10-11).
Anche Noi, cari figli, che per un inscrutabile consiglio di Dio, abbiamo ricevuto, dopo Pietro, dopo Lino e cento altri santi pontefici, la missione di confermare e consolare i nostri fratelli in Gesù Cristo (cfr. Lc 22, 32), Noi, come voi, sentiamo il nostro cuore stringersi al pensiero del turbine di mali, di sofferenze e di angosce, che imperversa oggi sul mondo. […]

Davanti a un tale cumulo di mali, di cimenti di virtù, di prove di ogni sorta, pare che la mente e il giudizio umano si smarriscano e si confondano, e forse nel cuore di più d’uno tra voi è sorto il terribile pensiero di dubbio, che per avventura già, dinanzi alla morte dei due apostoli, tentò o turbò alcuni cristiani meno fermi: Come può Dio permettere tutto questo? Come è possibile che un Dio onnipotente, infinitamente saggio e infinitamente buono, permetta tanti mali a Lui così facili a impedire? E sale alle labbra la parola di Pietro, ancora imperfetto, all’annunzio della passione: «Non sia mai vero, o Signore» (Mt 16, 22). No, mio Dio – essi pensano –, né la vostra sapienza, né la vostra bontà, né il vostro stesso onore possono lasciare che a tal segno il male e la violenza dominino nel mondo, si prendano giuoco di Voi, e trionfino del vostro silenzio. Dov’è la vostra potenza e provvidenza? Dovremo dunque dubitare o del vostro divino governo o del vostro amore per noi?
«Tu non hai la sapienza di Dio, ma quella degli uomini» (Mt 16, 23), rispose Cristo a Pietro, come aveva fatto dire al popolo di Giuda dal profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).
Tutti gli uomini sono quasi fanciulli dinanzi a Dio, tutti, anche i più profondi pensatori e i più sperimentati condottieri dei popoli.
Essi vorrebbero la giustizia immediata e si scandalizzano dinanzi alla potenza effimera dei nemici di Dio, alle sofferenze e alle umiliazioni dei buoni; ma il Padre celeste, che nel lume della sua eternità abbraccia, penetra e domina le vicende dei tempi, al pari della serena pace dei secoli senza fine, Dio, che è Trinità beata, piena di compassione per le debolezze, le ignoranze, le impazienze umane, ma che troppo ama gli uomini, perché le loro colpe valgano a stornarlo dalle vie della sua sapienza e del suo amore, continua e continuerà a far sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi, a piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45), a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro.
Che significa confidare in Dio?
Aver fiducia in Dio significa abbandonarsi con tutta la forza della volontà sostenuta dalla grazia e dall’amore, nonostante tutti i dubbi suggeriti dalle contrarie apparenze, all’onnipotenza, alla sapienza, all’amore infinito di Dio. È credere che nulla in questo mondo sfugge alla sua Provvidenza, così nell’ordine universale, come nel particolare; che nulla di grande o di piccolo accade se non previsto, voluto o permesso, diretto sempre da Essa ai suoi alti fini, che in questo mondo sono sempre fini di amore per gli uomini. […]

Per la fede che si è illanguidita nei cuori umani, per l’edonismo che informa e affascina la vita, gli uomini sono portati a giudicare come mali, e mali assoluti, tutte le sventure fisiche di questa terra. Hanno dimenticato che il dolore sta all’albore della vita umana come via ai sorrisi della culla; hanno dimenticato che il più delle volte esso è una proiezione della Croce del Calvario sul sentiero della risurrezione; hanno dimenticato che la croce è spesso un dono di Dio, dono necessario per offrire alla divina giustizia anche la nostra parte di espiazione; hanno dimenticato che il solo vero male è la colpa che offende Dio; hanno dimenticato ciò che dice l’Apostolo: «I patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la futura gloria che si manifesterà in noi» (Rm 8, 18); che dobbiamo mirare all’autore e consumatore della fede, Gesù, il quale, propostosi il gaudio, sostenne la croce (cfr. Eb 12, 2).
A Cristo crocifisso sul Golgota, virtù e sapienza che converte a sé l’universo, guardarono nelle immense tribolazioni della diffusione del Vangelo, vivendo confitti alla croce con Cristo, i due Principi degli apostoli, morendo Pietro crocifisso, Paolo curvando il capo sotto il ferro del carnefice, quali campioni, maestri e testimoni che nella croce è conforto e salvezza e che nell’amore di Cristo non si vive senza dolore. A questa croce, fulgente di via, di verità e di vita, guardarono i protomartiri romani e i primi cristiani nell’ora del dolore e della persecuzione. Guardate anche voi, o diletti figli, così nelle vostre sofferenze; e troverete la forza non solo di accettarle con rassegnazione, ma di amarle, ma di gloriarvene, come le amarono e se ne gloriarono gli apostoli e i santi, nostri padri e fratelli maggiori, che pure furono plasmati della medesima vostra carne e vestiti della stessa vostra sensibilità.

Guardate le vostre sofferenze e gli affanni vostri attraverso i dolori del Crocifisso, attraverso i dolori della Vergine, la più innocente delle creature e la più partecipe della divina Passione, e saprete comprendere che la conformità all’immagine del Figlio di Dio, Re dei dolori, è la più augusta e sicura via del cielo e del trionfo. Non guardate solo le spine, onde il dolore vi affligge e vi fa soffrire, ma ancora il merito che dal vostro soffrire fiorisce come rosa di celeste corona; e troverete allora con la grazia di Dio il coraggio e la fortezza di quell’eroismo cristiano, che è sacrificio e insieme vittoria e pace superante ogni senso; eroismo, che la vostra fede ha il diritto di esigere da voi.

«Finalmente [ripeteremo con le parole di san Pietro] siate tutti unanimi, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendendo male per male, né maledizione per maledizione, ma al contrario benedicendo...: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo: a cui è gloria e impero nei secoli dei secoli» (1Pt 3, 8-9; 4, 11).