QUICUMQUE VULT SALVUS ESSE, ANTE OMNIA OPUS EST, UT TENEAT CATHOLICAM FIDEM

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domenica 25 agosto 2013

Quando disobbediscono i superiori




 LA DISOBBEDIENZA DEI SUPERIORI - di P. Giovanni Cavalcoli, OP
da RiscossaCristiana 24.8.2013


Gli anziani come me ricordano bene l’agitato, chiassoso e scomposto periodo della cosiddetta “contestazione” soprattutto giovanile degli ambienti universitari civili ma anche ecclesiastici della fine anni ’60, che vagamente e confusamente si richiamavano al Concilio Vaticano II scambiato per una specie di Rivoluzione Francese o palingenesi universale dell’umanità, ma con agganci anche ad altri pensatori sedicenti innovatori, come per esempio il teologo Harvey Cox o i “teologi della morte di Dio” per i credenti o il famoso sociologo Herbert Marcuse per i non-credenti e i cattolici sedicenti “aperti”, mentre i comunisti più o meno scopertamente soffiavano sul fuoco o facevano da bordone con i soliti pretesti della liberazione dei lavoratori oppressi dall’oppressione capitalista.

E’ quel fenomeno diffusosi nel mondo occidentale, che è rimasto alla storia col nome di ’68, iniziato negli Stati Uniti all’Università di Berkeley e poi trapiantato a Parigi con l’ancora più famoso “maggio 1968”, dove si vedevano gli studenti dare l’assalto tra le barricate all’Università come i giacobini dettero l’assalto alla Bastiglia.

Io ho vissuto in pieno quel periodo perché allora mi trovavo a studiare filosofia all’Università di Bologna. Quello che allora maggiormente si notava, che turbava e preoccupava l’ambiente civile ed ecclesiale legato nella stragrande maggioranza ad un certo rispetto per le autorità, abituato ad un comportamento sociale tranquillo ed ordinato, erano i frequenti ed impressionanti episodi di spavalda e tracotante disobbedienza e ribellione alle istituzioni della Chiesa e dello Stato, come erano per esempio in campo civile le manifestazioni di studenti all’Università che impedivano il regolare svolgimento delle lezioni, cortei di protesta per le strade urlando l’odio di classe sotto al spinta dell’estremismo comunista.

Di lì a poco sarebbero iniziati i cosiddetti “anni di piombo” per l’azione sediziosa e criminale delle Brigate Rosse, mentre in campo ecclesiastico, anche se naturalmente non con tale violenza, analoghe manifestazioni di ribellioni a docenti e superiori, preti che dichiaravano all’omelia della Messa di volersi sposare, teologi sorpresi nudi sulla spiaggia come fu il caso del famoso Edward Schillebeecxk, teologi come Karl Rahner, affiancati dalla tacita o velata complicità di alcuni Episcopati nazionali, i quali rifiutavano come sbagliato l’insegnamento di Paolo VI contenuto nell’enciclica Humanae Vitae.

Tutto ciò avvenne in nome del rinnovamento della cultura e dell’autonomia degli studenti nei confronti di quelli che allora si chiamavano i “baroni”, assai semplicemente gli insegnanti, sulla base di una concezione della cultura – ho vissuto in prima persona questi avvenimenti –, per la quale lo studente è perfettamente alla pari del professore, ossia non ha nulla da imparare da lui, soprattutto se si tratta di contenuti tradizionali, ma il rapporto studente-professore doveva limitarsi ad un “dialogo” nel quale, se lo studente poteva anche apprendere dall’insegnante, anche questi però doveva accettare quello che diceva lo studente.

Nacque l’uso di interrompere l’insegnante durante la lezione per manifestare critiche e dissenso. Nei posti più educati invece l’intervento dello studente, come era già nell’antica tradizione della scolastica medioevale (le quaestiones quodlibetales), serviva a chiarire questioni anche per il bene della classe. Si introdusse la pratica dei cosiddetti “seminari di studio”, nei quali lo studente aveva una parte organizzativa facendo già tirocinio di insegnamento nei confronti degli altri studenti, sia pur sempre assistito dal professore, qualcosa di simile al medioevale baccalaureus, uno studente intermedio fra il docente e il resto della classe. La grande rivoluzione sessantottina recuperava antiche tradizioni medioevali!

Tuttavia, in un clima di relativismo culturale, quale quello di allora e tipico della modernità, non erano generalmente ammesse verità oggettive comuni, ma i contenuti della cultura dovevano emergere dal “confronto dialettico” in continua evoluzione, dove ogni risultato, mai del tutto scontato, certo e definitivo, poteva sempre esser messo in discussione da quello successivo.

Naturalmente gli studenti in questa rivoluzione non avevano tutti i torti e non erano assenti autentici maestri e formatori ed anche il ’68 non fu privo di aspetti positivi nel sottolineare la responsabilità e l’iniziativa personale dello studente nella propria formazione, mentre certamente idee nuove penetravano nel mondo dell’Università, più favorevoli ad una comunicazione tra studenti e docenti.

Adesso non si doveva più sottostare all’insegnante come a un dio in terra, ma era ammesso proporre o anche imporre ai docenti alcune alternative o limitazioni di potere concordate attraverso trattative e nel reciproco rispetto. Allo studente venivano concesse facoltà di mutare anche i programmi per ragionevoli motivi. L’insegnante doveva tener maggior conto della considerazione nella quale era tenuto dagli studenti. E gli insegnanti più saggi ed aggiornati rinunciavano a certi privilegi che consentivano loro di avere un eccessivo potere sugli studenti.

Avvenivano comunque all’Università agitatissime ed affollatissime riunioni di cinque o sei ore, fino alle cosiddette “occupazioni”, che duravano anche giorni, al termine delle quali, dopo una successione di martellanti e strillanti slogan marxisti, anarchici, maoisti e rivoluzionari, non si concludeva assolutamente nulla e chi pretendeva una conclusione certa e chiara appariva un reazionario, servo dei padroni.

Quanto alla situazione ecclesiale, imparai molto dal libro del Maritain Le Paysan de la Garonne, nel quale egli, con dovizia di documenti e fine umorismo, denunciava il ritorno di modernismo assai peggiore di quello dei tempi di S.Pio X, per una pretestuosa interpretazione del Concilio Vaticano II, che i neomodernisti facevano a loro vantaggio. Quasi nessuno ascoltò il grido di allarme del grande pensatore francese (che non fu il solo!) e per questo oggi ci troviamo nell’attuale situazione disastrata. E sì che Maritain non era un conservatore!

In mezzo a questa confusione e a questi disordini, trovai molta luce e conforto nella tradizione e nella dottrina della Chiesa, compresa quella conciliare e postconciliare. Ero un grande ammiratore di Papa Giovanni e Paolo VI. Proprio in quegli anni nei quali i sovversivi che si dichiaravano vittime dei baroni, preconizzavano una nuova società libera da qualunque autoritarismo, dove loro sarebbero stati i protagonisti e servi del popolo (i vari Capanna, Cohn-Bendit, Margherita Cagol, Toni Negri, ecc.), io studiavo Maritain, Gilson, Garrigou-Lagrange, S.Agostino, S.Bernardo, S.Bonaventura e S.Tommaso, insieme con i documenti della Chiesa con immensa gioia e frutto spirituale. Sentivo nella mia anima una perfetta consonanza e risonanza di quei sublimi insegnamenti e quindi la lealtà e l’onestà, la persuasività e la fondatezza delle loro motivazioni ed esposizioni.

Così maturò in me la vocazione domenicana ed entrai in convento a Bologna nel 1971. Fu allora che mi accorsi quanto il modernismo e la sovversione, sotto falso pretesto di “progresso”, avevano turbato e stavano turbando la Chiesa, dove avvenivano episodi di ribellione simili a quelli che stavano accadendo nella società civile, anche se certo non con la medesima violenza. Ma c’era una violenza più sottile: quella dell’inganno nel campo della fede e della teologia.

Nel contempo constatavo con sgomento il proliferare di errori tra teologi di grido senza che i vescovi intervenissero. Rari ed inefficaci gli interventi di Roma. Erano presi solo i pesci piccoli. Ed io mi domandavo: come mai? Ma che ci stanno fare i superiori? In tal modo gli errori si spargevano a piene mani in tutti gli ambienti ecclesiali: dalla famiglia, alla scuola, negli ambienti di lavoro, nella cultura, nelle parrocchie, nei movimenti, nelle istituzioni accademiche, come un’alluvione fangosa che all’inizio di basso livello, poi cresce e cresce sino a salire ai piani superiori delle case. O, all’inverso, come una seduzione fascinosa che sempre più avvolge fino a far perdere la testa e l’oggettività dello sguardo.

O in altre parole: una “sporcizia”, come avrebbe detto Benedetto XVI trent’anni dopo, che giungeva a contaminare vescovi, superiori, docenti ed educatori, i quali o non si rendevano conto di cosa stava succedendo o lo consideravano con un sorrisetto di compatimento o non facevano niente per non dire che alcuni erano conniventi o nascostamente o apertamente.

Certo Roma continuava sempre ad essere il faro e il centro del comando. Ma mentre il faro continuava ad illuminare – e questo come potrebbe non essere? – viceversa il comando diventava sempre più debole e disatteso da coloro stessi, collaboratori, pastori e superiori, che avrebbero dovuto trasmettere gli ordini alla base. E solo a questo titolo potevano esigere di esser obbediti a loro volta dai sudditi o dagli inferiori.

L’avvento di Giovanni Paolo II pose termine agli anni di piombo, all’espansione del comunismo ed  alle manifestazioni intraecclesiali plateali, eclatanti e violente contro la gerarchia, la Chiesa, il Papa e il Magistero. Ma non smise un lavoro o sotterraneo o anche palese da parte dei teologi e moralisti modernisti nel portare avanti il loro programma di secolarizzazione della Chiesa e le loro idee sovversive nella formare i giovani.

Qui purtroppo il Pontificato di questo grande Papa non potè far nulla. Egli si dedicò con grande impegno e prodigiosa energia, senza risparmio di forze, ad un’opera mondiale e spettacolare  di evangelizzazione con i suoi numerosissimi viaggi e contatti con un’infinità di persone, ma dedicò assai poco tempo a uno studio attento ed approfondito come soltanto il Papa avrebbe potuto e dovuto fare, dei principali problemi dottrinali e morali della Chiesa, onde fornire quei rimedi che solo il Papa avrebbe potuto offrire, ed a fornire la S.Sede di collaboratori competenti, coraggiosi e disinteressati, soprattutto nel campo della custodia della retta fede, sicchè il modernismo cominciò di soppiatto a penetrare anche nelle stanze dei bottoni.

Il Papa aveva sempre sulla bocca il problema dei giovani, e aveva con essi una grande capacità di contatto umano, ma purtroppo la formazione seminariale ed accademica, nonché quella  degli studentati religiosi restava in gran parte nelle mani dei modernisti, per esempio i rahneriani. Quali preti e quali vescovi, quali educatori di giovani potevano uscire da questi formatori? Quale concetto dell’obbedienza potevano dare questi formatori, loro che per primi erano disobbedienti alla Chiesa? Lo vediamo oggi.

Ed anzi che cosa successe soprattutto verso la fine del pontificato di Giovanni Paolo II? Che quella debolezza di governo che si era cominciata a notare con Paolo VI, che parlava di “magistero parallelo”, aumentò ulteriormente e ci fu un vero salto di qualità.

Quale? Che fino ad allora la diffusione del modernismo, non repressa come si sarebbe dovuto fare, si era limitata alla sola contaminazione delle intelligenze, e quindi era rimasta ad uno stadio solo teorico, senza conseguenze nel governo della Chiesa, mentre d’altra parte i fedeli sudditi della Chiesa, teologi e buoni pastori,  godevano tutto sommato della libertà di confutare i modernisti e di diffondere la sana dottrina in obbedienza al Magistero, dando essi stessi esempio di obbedienza.

Invece, con la fine degli anni ’90 e l’inizio del 2000, i modernisti cominciarono a raggiungere posti di potere sempre più numerosi ed elevati, dai quali potevano imporre con la forza e le minacce quelle idee modernistiche che avevano liberamente assorbito dai loro maestri negli anni o del seminario o della formazione religiosa o dell’Università, intralciando e fermando nel contempo il lavoro dei fedeli obbedienti al Magistero e al Papa, i quali hanno sempre più cominciato a sembrare dei “disobbedienti”, ma disobbedienti ovviamente non al Magistero ma ai superiori modernisti.

Così i sessantottini diventati vescovi o superiori si stanno mostrando ben più duri ed autoritari dei vecchi “baroni”, che essi forse con sincerità avevano contestato da giovani, mentre i vescovi del preconcilio potevano essere sì severi, ma almeno lo facevano in nome della retta fede e dell’obbedienza alla Chiesa. Invece questi nuovi superiori, contrari all’inquisizione medioevale (del resto giustamente), hanno poi istituito clandestinamente una nuova inquisizione, senza alcuna ragione giuridica, ma basata solo sulla loro prepotenza, per imporre con la forza la linea del modernismo.

Così oggi avviene che quegli stessi che trenta o quarant’anni fa con arroganza e sicumera, dai banchi del seminario o dell’Università si ribellavano ai maestri accusati di autoritarismo reazionario, presentandosi come paladini della libertà dello studio, antesignani del progresso della cultura e del futuro della Chiesa, nonchè profeti delle “comunità di base”, adesso che hanno raggiunto il potere dopo infinite vergognose adulazioni e “obbedienze” ai maestri modernisti, considerano i loro propri comandi come precetti divini, disobbedendo ai quali piovono sul ribelle i più rigorosi castighi per aver offeso nel superiore la presenza di Cristo, quando loro stessi per primi se ne infischiano di Papi, di Santi e di Magistero, certi dell’impunità ed anzi coccolati da tutta l’ideologia laicista, massonica o modernista come uomini del dialogo, della tolleranza e del rispetto del diverso.

I loro protetti sono personaggi intoccabili, per cui chi osa criticarli scandalizza i loro devoti, meglio dire fanatici, più che se un credente vedesse profanata l’eucaristia. Viceversa i buoni cattolici sono trattati come pezze da piedi col massimo dispregio, come dementi e indegni di qualunque risposta, anche perché tali superiori, non avendo argomenti seri, non sanno controbattere alle loro obiezioni.

Per quanto un suddito faccia presente con rispettato, lealtà e competenza difficoltà od obbiezioni alle direttive di questi superiori con riferimento alla dottrina della Chiesa o la Magistero del Papa, questi superiori non ascoltano ragione, come se il loro verbo fosse la verità assoluta e la via necessaria della salvezza, castigando questi sudditi che in realtà non desiderano altro che obbedire ad un superiore decente ed obbediente. Accade così che a chi disobbedisce alla Chiesa non capita nulla, ma a chi disobbedisce al superiore modernista, si salvi chi può.

Come uscire da questa situazione gravissima, da questo male spaventoso? Ormai le forze della disobbedienza autolegalizzata sono tali che la S.Sede e i buoni vescovi non sono assolutamente in grado di governare tale la situazione.

Non resta che sperare in una resipiscenza dei responsabili, che in fin dei conti sono rivestiti quasi sempre di autorità legittima (non stiamo a verificare) e dovrebbero sapere qual è il loro dovere. Siano essi pronti ad ascoltare la loro coscienza e, rinunciando ad ogni ambizione e smania di potere, vogliano, con l’ispirazione dello Spirito Santo e l’intercessione della Beata Vergine Maria, temere l’incombente castigo divino e, mossi da un sincero spirito di pentimento, esercitare la loro sacra missione con autentico spirito di servizio alla verità e al bene delle anime.

mercoledì 14 agosto 2013

Festa Assunzione di Maria al Cielo

L’UMILTA’ DI MARIA

(da “LE GLORIE DI MARIA” di Sant’Alfonso Maria de’ Liguori)



Sant'Agostino dice che per ottenere con più sicurezza e abbondanza il favore dei santi bisogna imitarli, perché vedendo che noi pratichiamo le virtù da loro esercitate, essi sono più portati a pregare per noi. Maria, la regina dei santi e la nostra prima avvocata, dopo aver sottratto un'anima dagli artigli di Lucifero e averla unita a Dio, vuole che quest'anima cerchi d'imitarla, altrimenti non potrà arricchirla delle sue grazie come vorrebbe, vedendola con­traria ai suoi comportamenti.
Perciò la Vergine chiama beati quelli che imitano diligentemente la sua vita: "Ora, figli, ascoltatemi: beati quelli che seguono le mie vie!" (Prov.8,32).
Chi ama, o è simile o cerca di rendersi simile alla persona amata, secondo il celebre proverbio: "L'amore trova o fa uguali". Perciò San Girolamo ci esorta dicendo che se noi amiamo Maria, dobbiamo cercare d'imitarla, perché questo è il maggiore omaggio che possiamo offrirle.
Riccardo di San Lorenzo afferma che sono e possono chiamarsi veri figli di Maria quelli che cercano di imitare la sua vita. Dunque, conclude San Bernardo, il figlio si sforzi di imitare la Madre, se desidera il suo favore; poiché allora, vedendosi onorata come madre, Maria lo tratterà e favorirà come figlio.

In quanto poi alle virtù di questa Madre, anche se i Vangeli non ne riportano molti dettagli, tuttavia, dato che vi si dice che fu piena di grazia, comprendiamo facilmente che Maria ebbe tutte le virtù e tutte in grado eroico. San Tommaso dice: "Ciascuno degli altri santi ha primeggiato in una virtù particolare: uno fu soprattutto casto, un altro fu soprattutto umile, un altro fu soprattutto misericordioso. Ma la beata Vergine ci è stata data come esempio di tutte le virtù". E Sant'Ambrogio afferma: "Così fu Maria, perché la sua vita fosse di esempio a tutti". Perciò il Santo ci lasciò scritto: "Come in un'immagine rifulga in voi la verginità e la vita di Maria, nella quale risplende ogni forma di virtù. Da lei attingete gli esempi di vita... ciò che dovete correggere, ciò che dovete evitare, ciò a cui dovete aderire".

E poiché, come insegnano i santi padri, l'umiltà è il fondamento di tutte le virtù, vediamo in primo luogo quanto fu grande l'umiltà della Madre di Dio.


L'UMILTA’ DI MARIA

"L'umiltà è fondamento e custode delle virtù", dice San Bernardo, e con ragione. Senza umiltà, infatti, non vi può essere alcun'altra virtù in un'anima. Anche se essa possiede tutte le virtù, tutte verranno meno se viene meno l'umiltà. Al contrario, come San Francesco di Sales scrisse alla beata suor Giovanna di Chantal, Dio ama tanto l'umiltà, che subito accorre dove la vede. Questa bella virtù così necessaria era sconosciuta nel mondo, ma il Figlio stesso di Dio venne ad insegnarla sulla terra con il suo esempio e volle che specialmente in essa noi cercassimo d'imitarlo: "Imparate da me che sono mite e umile di cuore" (Mt.11,29). Come fu la prima e più perfetta discepola di Gesù Cristo in tutte le virtù, così Maria lo fu anche nell'umiltà, per cui meritò di essere esaltata sopra tutte le creature. Fu rivelato a santa Matilde che la prima virtù esercitata dalla Vergine fin dalla fanciullezza fu l'umiltà.

Il primo atto dell'umiltà di cuore è avere un basso concetto di sé. Maria ebbe sempre un così basso concetto di se stessa, come fu ugualmente rivelato a Santa Matilde, che, pur vedendosi arricchita di grazie più degli altri, non si mise mai al di sopra di nessuno.
Spiegando quel passo del Cantico dei Cantici: "Mi hai ferito il cuore, sorella mia sposa... con un solo capello del tuo collo" (Ct.4,9 Vulg.), l'abate Ruperto dice che questo capello del collo della sposa fu appunto l'umile concetto che Maria ebbe di sé, con cui ferì il cuore di Dio; "che cosa c’è infatti più sottile di un capello?". Non già che la santa Vergine si stimasse peccatrice, perché l'umiltà è verità, come dice Santa Teresa, e Maria sapeva di non aver mai offeso Dio. Non che non confessasse di aver ricevuto da Dio maggiori grazie di tutte le altre creature, perché un cuore umile ben riconosce i favori speciali del Signore per umiliarsi ancor più; ma la divina Madre, alla luce più grande che aveva per conoscere l'infinita grandezza e bontà del suo Dio, conosceva meglio la sua piccolezza. Perciò si umiliava più di ogni altro e con la sposa del Cantico dei Cantici diceva: "Non guardate che io sono bruna, perché mi ha abbronzato il sole" (Ct.1,6). San Bernardo commenta: "In confronto al suo splendore, mi trovo nera". Infatti, dice San Bernardino, "la Vergine aveva sempre un rapporto attuale con la divina maestà e con il proprio niente". Come una mendicante, se indossa una ricca veste che le è stata donata, non se ne insuperbisce, ma nel vederla tanto più si umilia davanti al suo donatore perché più si ricorda della sua povertà, così Maria, quanto più si vedeva arricchita, tanto più si umiliava, ricordandosi che tutto era dono di Dio. La Vergine stessa disse alla benedettina Santa Elisabetta: "Sappi che io mi ritenevo la creatura più spregevole e indegna della grazia di Dio". San Bernardino afferma: "Come nessuna creatura, dopo il Figlio di Dio, s'innalzò sulle vette della grazia quanto Maria, così nessuna creatura scese più in basso nell'abisso dell'umiltà".

Inoltre è atto di umiltà nascondere i doni celesti. Maria volle tacere a San Giuseppe la grazia di essere divenuta Madre di Dio, anche se pareva necessario informarlo, per dissipare i sospetti che lo sposo poteva avere sulla sua onestà vedendola incinta, o almeno per liberarlo dal tur­bamento. San Giuseppe infatti, non potendo dubitare della castità di Maria e d'altra parte ignorando il mistero, "decise di rimandarla in segreto" (Mt.1,19); e, se l'angelo non gli avesse rivelato che la sposa aveva concepito per opera dello Spirito Santo, l'avrebbe lasciata.

Inoltre l'umile rifiuta le lodi per sé e le riferisce tutte a Dio. Maria si turbò nel sentirsi lodare dall'angelo Gabriele e quando santa Elisabetta le disse: "Benedetta tu fra le donne... A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me?... Beata colei che ha creduto... " (Lc.1), la Vergine, attribuendo tutte quelle lodi a Dio, rispose con l'umile cantico: "L'anima mia magnifica il Signore". Come se dicesse: Elisabetta, tu lodi me, ma io lodo il Signore a cui solo è dovuto l'onore. Tu ammiri che io venga a te; io ammiro la divina bontà: "il mio spirito esulta in Dio, mio Salvatore". Tu mi lodi perché ho creduto; io lodo il mio Dio che ha voluto esaltare il mio niente: "perché ha guardato l'umiltà della sua serva" (Lc.1,46-48). Maria disse a Santa Brigida: "Perché mi umiliavo tanto e ho meritato tanta grazia, se non perché ho saputo e pensavo di non essere e di non avere niente? Perciò non volli la mia lode, ma soltanto quella del donatore e del creatore". Parlando dell'umiltà di Maria, Sant'Agostino esclama: "O beata umiltà, che donò Dio agli uomini, aprì il paradiso e liberò le anime dagli inferi".

È proprio degli umili il servire, e Maria non esitò ad andare a servire Elisabetta per tre mesi. Dice dunque San Bernardo: "Elisabetta si meravigliava che Maria fosse venuta, ma ancor più si stupisca che sia venuta non per essere servita, ma per servire".

Gli umili se ne stanno in disparte e si scelgono il posto peggiore. Perciò Maria, osserva San Bernardo, quella volta che Gesù stava predicando in una casa (Mt.12), desiderava parlargli ma "non volle interrompere il discorso di suo Figlio con la sua autorità di madre e non entrò nella casa in cui egli parlava". Per la stessa ragione, stando nel cenacolo con gli apostoli, Maria volle mettersi all'ultimo posto. Leggiamo in San Luca: "Tutti questi erano assidui e concordi nella preghiera, insieme con alcune donne e con Maria, la madre di Gesù" (At.1,14). Non che San Luca non conoscesse i meriti della divina Madre, per cui avrebbe dovuto nominarla in primo luogo; ma poiché Maria si era messa all'ultimo posto nel cenacolo, dopo gli apostoli e le altre donne, San Luca menziona tutti i presenti secondo l'ordine in cui stavano collocati. È questo il pensiero di un autore. Dice San Bernardo: "Giustamente l'ultima è diventata la prima perché, pur essendo la prima di tutti, si comportava come se fosse l'ultima".

Infine gli umili amano le manifestazioni di disprezzo. Perciò non si legge che Maria fosse presente in Gerusalemme quando nella Domenica delle palme il Figlio fu ricevuto dal popolo con tanti onori. Invece al momento della morte di Gesù la Vergine non si astenne dal comparire in pubblico sul Calvario, affrontando il disonore di esse­re riconosciuta come madre del condannato, che moriva da infame con una morte infame. Maria disse a santa Brigida: "Che cosa c'è di più spregevole di essere considerata incapace, di avere bisogno di tutto e di credersi la più indegna di tutti? Tale, o figlia, fu la mia umiltà, questa la mia gioia e questa la mia volontà, perché non avevo altro pensiero che di piacere unicamente a mio Figlio".

Alla venerabile suor Paola da Foligno fu dato in un'estasi di comprendere quanto fu grande l'umiltà della Santa Vergine. Parlandone al suo confessore, la religiosa, piena di stupore, diceva: "Ah padre, l'umiltà della Madonna! Nel mondo non vi è neppure un minimo grado di umiltà in confronto a quella di Maria". Una volta, il Signore fece vedere a Santa Brigida due dame, una tutta fasto e vanità. "Questa, le disse, è la superbia. L'altra che vedi, con atteggiamento modesto, rispettosa verso tutti, con il pensiero rivolto unicamente a Dio e che si considera come un niente, è l'umiltà e si chiama Maria". Dio volle in tal modo manifestarci che la sua beata Madre era così umile, che era l'umiltà stessa.

È certo che per la nostra natura corrotta dal peccato non c'è forse, dice San Gregorio Nisseno, nessuna virtù più difficile da praticare che l'umiltà. Ma non c'è altra via: non potremo mai essere veri figli di Maria se non siamo umili. Dice San Bernardo: "Se non puoi imitare la verginità dell'umile, imita l'umiltà della Vergine". Ella aborrisce i superbi, chiama a sé soltanto gli umili: "Chi è fanciullo venga a me" (Prov.9,4). Riccardo di San Lorenzo afferma: "Maria ci protegge sotto il mantello dell'umiltà". La Madre di Dio stessa così parlò a Santa Brigida: "Anche tu, figlia mia, vieni e nasconditi sotto il mio mantello; questo mantello è la mia umiltà". Poi disse che la considerazione della sua umiltà è un buon mantello che riscalda. Ma come il mantello non riscalda se non chi lo porta, non solo con il pensiero, ma anche in opera, così, aggiunse, "la mia umiltà non giova, se non ci si sforza di imitarla. Perciò, figlia mia, rivestiti di questa umiltà". Quanto sono care a Maria le anime umili! San Bernardo scrive: "La Vergine riconosce e ama quelli che la amano ed è vicina a coloro che la invocano, specialmente a quelli che vede conformi a sé nella castità e nell'umiltà". Perciò il santo esorta tutti coloro che amano Maria ad essere umili: "Sforzatevi di emulare questa virtù, se amate Maria". Martino d'Alberto della Compagnia di Gesù per amore della Vergine era solito scopare il convento e raccoglierne le immondizie. Una volta, riferisce il padre Nierembergh, gli apparve la divina Madre e ringraziandolo gli disse: "Quanto mi è cara quest'azione fatta per amor mio!".

Dunque, mia Regina, non potrò mai essere tuo vero figlio se non sono umile. Ma non vedi che i miei peccati dopo avermi reso ingrato verso il mio Signore mi hanno fatto diventare anche superbo? Madre mia, poni tu rimedio alla mia situazione: per i meriti della tua umiltà ottienimi di essere umile, divenendo così figlio tuo. Amen.
Sant’Alfonso Maria de’ Liguori

lunedì 5 agosto 2013

Commento di Sant'Agostino Lettera 1Gv.


http://vitruvio.imss.fi.it/foto/galileopalazzostrozzi/41308_1000.jpg


da: Commento alla prima lettera di S. Giovanni
di Sant'Agostino d'Ippona


La Sposa si fa uno con lo Sposo
2. Che cosa mostrò il Signore che era scritto su di sé nella Legge di Mosé, nei Profeti e nei Salmi? Che cosa rivelò? Ci risponda lui stesso. L'Evangelista su questo punto è stato breve affinché imparassimo da noi stessi che cosa dobbiamo capire e credere tra tanti e così estesi testi delle Scritture. Anche se molte sono le pagine e molti i libri, tutti contengono ciò che il Signore disse in poche parole ai suoi discepoli. Che cosa? Che "il Cristo doveva patire e risorgere il terzo giorno" (Lc. 9, 22; 24, 7; Mt. 16, 21; 17, 21; Mc. 8, 31; 9, 30). A proposito dello Sposo senti dire che "il Cristo doveva patire e risorgere". Eccoti dunque descritto lo Sposo. Vediamo che cosa dice la Scrittura della sposa: così, conoscendo lo Sposo e la sposa, verrai alle nozze ben istruito. Ogni celebrazione liturgica è infatti una festa nuziale; la festa delle nozze della Chiesa. Il figlio del re deve prendere moglie e questo figlio del re è lui stesso; la sua sposa sono quelli che partecipano alle sue nozze. Coloro che nella Chiesa partecipano alle celebrazioni liturgiche, se vi partecipano bene, diventano la sposa, a differenza di quanto succede nelle nozze umane, dove altri sono quelli che assistono, e altra è colei che si sposa. 


Tutta la Chiesa infatti è sposa di Cristo, dalla cui carne essa prende l'inizio e ne rappresenta la primizia: in quella carne la sposa si è congiunta allo Sposo. Giustamente spezzò il pane, quando volle mostrare la realtà della sua carne; e giustamente gli occhi dei discepoli si aprirono al segno della frazione del pane ed essi lo riconobbero. Che cosa dunque disse il Signore che era scritto su di lui nella Legge, nei Profeti, e nei Salmi? Che "il Cristo doveva patire". Se non avesse aggiunto anche "e risorgere", giustamente avrebbero avuto motivo di piangere quelli i cui occhi erano impediti. Ma anche il risorgere fu predetto. E perché? Perché bisognava che il Cristo patisse e risorgesse? E' detto in quel salmo che vi abbiamo con gran cura spiegato, mercoledì, nella prima riunione della scorsa settimana. Perché occorreva che il Cristo patisse e risorgesse? Perché "tutti i confini della terra si ricorderanno del Signore e a lui torneranno, e tutte le nazioni si prostreranno al suo cospetto" (Sal. 21, 28). Anche qui il salmo, affinché comprendiate che Cristo doveva patire e risorgere, aggiunge dell'altro per attirare la nostra attenzione sopra la sposa, dopo averci fatto riflettere sopra lo Sposo. Dice dunque: "La penitenza e la remissione dei peccati saranno predicate nel suo nome fra tutte le genti, incominciando da Gerusalemme" (Lc. 24, 47). Fratelli, queste parole fissatele bene nella memoria. Nessuno può mettere in dubbio che la Chiesa è presente in tutto il mondo; nessuno può dubitare che essa è nata a Gerusalemme ed ha raggiunto tutte le nazioni. Conosciamo il campo dove fu piantata la vite, ma una volta che si è sviluppata, non riconosciamo più il campo, poiché essa tutto l'ha ricoperto. Da dove ha preso l'avvio? "Da Gerusalemme". Dove è giunta? "A tutte le genti". Poche ne mancano, ma presto le raggiungerà tutte. Frattanto mentre giunge a tutte, l'agricoltore ha ritenuto necessario tagliare alcuni rami inutili, che produssero eresie e scismi. Ciò che è stato tagliato non abbia influsso su di voi, per non correre il rischio che anche voi siate tagliati; pregate anzi perché le parti tagliate vengano di nuovo inserite. E' manifesto a tutti che Cristo è morto, è risorto ed è asceso al cielo: anche la Chiesa si è mostrata a tutti chiaramente poiché nel suo nome viene predicata la penitenza e la remissione dei peccati a tutti i popoli. Da dove la Chiesa ha avuto inizio? "Da Gerusalemme". Colui che sentendo queste cose non vede la grande montagna e chiude gli occhi davanti alla luce che brilla sul candelabro, è uno stolto, uno sciocco, e, soprattutto, un cieco. 

La Sposa di Cristo è la Chiesa, e non può essere che una
3. Quando diciamo a questi tali: Se siete cristiani cattolici, dovete essere in comunione con quella Chiesa dalla quale il Vangelo viene diffuso in tutto il mondo; quando diciamo loro: Dovete essere uniti alla vera Gerusalemme; ci rispondono: Non vogliamo avere nulla a che fare con quella città nella quale è stato ucciso il nostro re, dove è stato ucciso il nostro Signore. Sembra dunque che essi odino la città dove il Signore è stato ucciso. I giudei l'hanno ucciso quando era sulla terra, costoro lo respingono quando ormai siede in cielo. Sono peggiori quelli che l'hanno disprezzato giudicandolo un uomo o quelli che rifiutano come sacrileghi i sacramenti di lui, che pure ritengono Dio? Essi odiano veramente la città in cui è stato ucciso il loro Signore. Uomini pii e misericordiosi quali sono, s'addolorano grandemente perché Cristo è stato ucciso, ma poi uccidono Cristo negli uomini. Cristo amò la sua città e ne ebbe misericordia; da essa ordinò che prendesse inizio la sua predicazione: "incominciando da Gerusalemme". Lì volle che si iniziasse a parlare del suo nome, e tu senti orrore ad esserne cittadino? Non c'è da meravigliarsi se tu, essendo stato reciso, hai in odio la radice. Non disse forse Cristo ai suoi discepoli: "Restate nella città fin quando manderò a voi colui che vi ho promesso" (Lc. 24, 43-49)? Questa è la città che essi odiano. Se l'abitassero i giudei, forse l'amerebbero, perché i giudei sono stati gli uccisori di Cristo. 


Tutti gli uccisori di Cristo, cioè i giudei, sono stati espulsi, come ben si sa, da quella città. Se prima essa ospitava quelli che infierirono contro Cristo, ora ospita coloro che adorano Cristo. Essi la odiano, perché vi trovano i cristiani. Cristo volle che in essa restassero i suoi discepoli, e in essa volle che ricevessero lo Spirito Santo. Da dove ebbe inizio la Chiesa se non dal luogo in cui scese dal cielo lo Spirito Santo, riempiendo di sè le centoventi persone che ivi si trovavano riunite? Il loro numero di dodici si era decuplicato. Stavano dunque insieme centoventi persone e venne lo Spirito Santo e riempì tutto il luogo dove s'udì un suono come di vento impetuoso e lingue come di fuoco andarono a posarsi sulle loro teste. Avete sentito leggere appunto questo brano degli Atti degli Apostoli: "Essi incominciarono a parlare in lingue diverse, come lo Spirito dava loro di parlare" (cf. Atti, 1, 15; 2, 1-13). Ciascuno dei presenti, che erano giudei provenienti da popoli diversi, riconosceva il proprio linguaggio e tutti si meravigliavano che persone non istruite e rozze avessero imparato non una o due lingue ma addirittura le lingue di tutti i popoli. Si mostrava così che in quel luogo dove tutte le lingue risuonavano, tutte avrebbero aderito alla fede. Ma costoro che amano tanto Cristo e non vogliono aver nulla a che fare con la città che l'uccise, onorano Cristo a loro modo, dicendo che egli ha dato la preferenza a due sole lingue, la latina e la punica, cioè l'africana. Cristo si sarebbe dunque legato a due sole lingue? Quelle che sono usate nel partito di Donato, dove non se ne conoscono altre? Stiamo all'erta, o fratelli, e consideriamo invece il dono dello Spirito di Dio; crediamo quanto di lui fu detto in precedenza, facendo sì di veder realizzato quanto già fu predetto nel salmo: "Non c'è lingua, non ci sono parole di cui non si è sentito il suono" (Sal. 18, 4).

 E perché tu non creda che le lingue si sono mosse verso uno stesso luogo, ma che è il dono di Cristo che si è esteso a tutte le lingue, ascolta ciò che segue: "in ogni luogo è giunto il suono della loro voce, le loro parole hanno raggiunto gli estremi confini del mondo" (Sal. 18, 5). Perché è avvenuto ciò? "Perché egli ha posato la sua dimora nel sole" (Sal. 18, 6), cioè sotto gli occhi di tutti. Questa dimora è la sua carne, cioè la sua Chiesa, ch'è posta sotto la luce del sole, non nelle tenebre della notte ma nella chiarezza del giorno. Perché allora quelli non la riconoscono? Ritornate con la mente al passo con cui ieri abbiamo chiuso il discorso e capirete perché non la riconoscono: "Chi odia il proprio fratello cammina nelle tenebre e non sa dove va, perché le tenebre l'hanno accecato" (1 Gv. 2, 9). Noi invece cerchiamo di vedere ciò che viene dopo per non rimanere nelle tenebre. Come evitare le tenebre? Amando i fratelli. Quale la prova che amiamo i fratelli? Questa: che non spezziamo l'unità ed osserviamo la carità.
Figli, perché nati in Cristo



4. Scrivo a voi, figlioli, perché vi sono rimessi i peccati nel suo nome (1 Gv. 2, 12). Per questo "figlioli", perché con la remissione dei peccati rinascete a nuova vita. Ma i peccati in nome di chi sono rimessi? Forse in nome di Agostino? no; e neppure in nome di Donato. Tu conosci Agostino e sai chi è Donato; ma neppure nel nome di Paolo e di Pietro sono rimessi i peccati. L'Apostolo infatti, pieno di quella materna carità nella quale ha generato i suoi figli, ci svela il suo cuore e in certo qual modo si squarcia il petto con le sue parole, piangendo i figli che vede rapiti da quanti seminano divisioni nella Chiesa e cercano in tutti i modi di fare a pezzi l'unità creando diverse fazioni. Egli riconduce ad un sol nome coloro che volevano assumersi molti nomi, cerca di allontanarli dall'amore verso la propria persona per volgerli all'amore di Cristo e grida loro: "Forse fu Paolo ad essere crocifisso per voi? O è nel nome di Paolo che siete stati battezzati?" (1 Cor. 1, 13). Che dice dunque? Non voglio che siate miei ma che siate con me, poiché siamo tutti di colui che per noi è morto, per noi fu crocifisso. Perciò aggiunge: "e nel suo nome" - non nel nome di un uomo qualsiasi - "vi vengono rimessi i peccati". 


Padri, perché avete conosciuto il Principio
5. Scrivo a voi, padri. Perché prima si è rivolto ai figli? "Perché a voi vengono rimessi i peccati nel suo nome", così che siete generati ad una nuova vita e perciò siete figli. Ma perché ora ai padri?. Perché avete conosciuto lui fin dal principio (1 Gv. 2, 13). Il principio è una prerogativa della paternità. Ora Cristo è nuovo nella carne, ma antico nella divinità. Quanto egli è antico? Di molti anni? E' prima di sua madre? Certo è prima di sua madre. "Tutte le cose infatti sono state create per mezzo di lui" (Gv. 1, 3). Se egli, l'antico, creò tutte le cose, creò anche sua madre dalla quale potesse nascere come nuovo. Lo crediamo anteriore soltanto a sua madre? No, poiché egli è prima ancora degli avi di sua madre. Abramo è l'avo di sua madre ed il Signore dice: "Prima di Abramo io sono" (Gv. 8, 58). Prima di Abramo soltanto? Cielo e terra furono creati prima che esistesse l'uomo. Prima di essi c'era il Signore, anzi prima di essi egli è. Disse bene perciò: non prima di Abramo io fui; ma "prima di Abramo io sono". Quando di una cosa si dice che fu, significa che non esiste più; quando si dice: sarà, significa che ancora non esiste; ma egli non conosce altra esperienza che quella dell'essere. Conosce l'essere in quanto è Dio; ma non sa che cosa significhi essere stato, né conosce l'attesa del dover essere. C'è in lui un giorno solo, ma sempiterno. Quel giorno non ha dietro di sè un ieri, né davanti a sè un domani. Il giorno di oggi fa seguito a quello di ieri e avrà termine con l'avvento del domani. Quel suo giorno unico è invece senza tenebre, senza notte, senza divisione di ore, di minuti o di altre unità di misura. Chiamalo come vuoi, chiamalo pure giorno, se ti piace, ma puoi chiamarlo anche anno ed attribuirgli il valore di anni ed anni. Di Cristo infatti è stato scritto: "I tuoi anni non finiranno" (Sal. 101, 28). E quando fu chiamato giorno? Quando al Signore fu detto: "Oggi ti ho generato" (Sal. 2, 7). Generato da un Padre eterno, eterna è pure la sua generazione: essa è senza inizio, senza termine, senza limiti di tempo, poiché egli è l'essere, egli è colui che è. Questo è il nome che disse a Mosé: "Dirai loro: Colui che è mi ha mandato a voi" (Es. 3, 14). Che cosa esisteva dunque prima di Abramo, prima di Noè, prima di Adamo? Ce lo dice la Scrittura: "Io ti ho generato prima dell'aurora" (Sal. 109, 3). Egli fu dunque generato prima del cielo e prima della terra. Perché? Perché "tutte le cose furono fatte per mezzo di lui e senza di lui niente fu fatto" (Gv. 1, 3). Voi che siete padri, riconoscetelo: padri si diventa riconoscendo colui che è fin dal principio. 


Giovani, perché avete vinto il maligno
6. Scrivo a voi, giovani. Voi siete figli, siete padri, siete giovani; figli per effetto della nascita, padri perché riconoscete il principio. Ma perché giovani? Perché avete vinto il maligno (1 Gv. 2, 13). 7. Nei figli troviamo la nascita; nei padri l'antichità, nei giovani la fortezza. Se il maligno viene vinto dai giovani, questo significa che egli lotta contro di noi. Lotta, ma non vince. Perché? Perché siamo forti, ma ancor più perché in noi è forte colui che abbiamo visto inerme nelle mani dei persecutori. E' lui che ci fa forti, lui che non ha opposto resistenza ai persecutori. Crocifisso per la sua debolezza, egli vive per la potenza di Dio.
7. Scrivo a voi, fanciulli. Perché fanciulli? Perché avete conosciuto il Padre (1 Gv. 2, 14). Scrivo a voi, padri: lo ripete con insistenza ed aggiunge: perché avete conosciuto colui che è fin dal principio. Cioè: ricordate che siete padri, ma se dimenticate colui che è fin dal principio, perdete la vostra paternità. Scrivo a voi, giovani. Considerate con ogni attenzione e ricordate sempre che siete giovani. Combattete per poter vincere, raggiungete la vittoria per ottenere la corona; ma siate umili per non soccombere durante il combattimento. "Scrivo a voi, giovani", perché siete forti, e la parola di Dio rimane in voi, e avete vinto il maligno (1 Gv. 2, 14). 


Non si può amare Dio e il mondo
8. Tutti questi privilegi sono nostri, fratelli, perché abbiamo conosciuto colui che è fin dal principio, perché siamo forti ed abbiamo conosciuto il Padre: tutte queste realtà allargano le nostre conoscenze ma devono anche sostenere la nostra carità. Se conosciamo, non possiamo anche non amare: una conoscenza senza amore non ci salva. "La scienza gonfia, la carità edifica" (1 Cor. 8, 1). Se professate la fede ma non amate, incominciate ad assomigliare ai demoni. Anche i demoni davano testimonianza al Figlio di Dio e dicevano: "Che abbiamo noi a che fare con te?" (Mt. 8, 29). Ma venivano da lui scacciati. Voi confessatelo ed abbracciatelo. Essi temevano a causa della loro iniquità; voi invece amatelo, perché vi ha perdonato le iniquità commesse.


Ma come ameremo Dio, se amiamo il mondo? Egli vuole farsi accogliere in noi mediante la carità. Ci sono due amori: quello del mondo e quello di Dio; se alberga in noi l'amore del mondo, non potrà entrarvi l'amore di Dio. Si tenga lontano l'amore del mondo e resti in noi l'amore di Dio; abbia posto in noi l'amore migliore. Se prima amavi il mondo, ora non amarlo più; se saziavi il tuo cuore con gli amori terreni, dissetati ora alla fonte dell'amore di Dio, e incomincerà ad abitare in te la carità, dalla quale nessun male può derivare. Date dunque ascolto alla voce di colui che ora vuol farvi puri. I cuori degli uomini sono per lui come un campo, ma in che stato lo trova? Se scorge in esso una selva, incomincia allora ad estirparla, ma se lo trova già dissodato, si da’ subito a seminarlo: vuole piantarvi l'albero della carità. E qual è la selva che vuole estirpare? L'amore del mondo. Senti come Giovanni parla di questa estirpazione: Non vogliate amare il mondo, e prosegue, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui (1 Gv. 2, 15). 


La carità è la radice della virtù.
9. Dunque avete sentito: "Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui". Nessuno, fratelli, pensi che queste dichiarazioni siano false. E' Dio che parla, e lo Spirito Santo che ha parlato per mezzo dell'apostolo, e nulla v'è di più vero. "Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui". Vuoi avere l'amore del Padre, per poter essere coerede del Figlio? Non amare il mondo. Scaccia l'amore malvagio del mondo, per riempirti dell'amore di Dio. Sei come un vaso che è ancora pieno; butta via il suo contenuto, per accogliere ciò che ancora non possiedi. I nostri fratelli certo sono già rinati dall'acqua e dallo Spirito Santo; anche noi da un po' di anni siamo rinati dall'acqua e dallo Spirito Santo. E' bene per noi non amare il mondo, affinché i sacramenti non abbiano a risolversi nella nostra dannazione, cessando così di essere sostegni della nostra salvezza. Sostegno di salvezza significa possedere le radici della carità, la virtù della pietà e non soltanto la sua esteriore apparenza. Buona e santa è l'apparenza; ma che vale, se manca del suo sostegno? Il tralcio tagliato non viene forse gettato nel fuoco? Mantieni pure la forma esterna, ma che sia legata alla radice. In che modo staremo uniti alla radice, per non correre il rischio di venire da essa tagliati? Conservando la carità, come dice Paolo apostolo: "Radicati e fondati nella carità" (Ef. 3, 17). Come potrà mettere le sue radici la carità, là dove l’amore del mondo tutto copre al pari di una selva? Estirpate questa selva. State per seminare nel terreno un seme prezioso: nel campo nulla rimanga che possa soffocare quel seme. Le parole di Giovanni ci sollecitano ad operare questa estirpazione: "Non vogliate amare il mondo, né le cose che sono nel mondo. Se uno ama il mondo, l'amore del Padre non è in lui". 


Inseriti nel tempo e nell'eternità
10. Perché tutto ciò che è nel mondo, è desiderio della carne, concupiscenza degli occhi e ambizione terrena - dunque tre realtà - e queste non provengono dal Padre ma dal mondo. E il mondo passa, come passano i suoi desideri; ma chi avrà fatto la volontà di Dio, resterà in eterno, come Dio stesso rimane in eterno (1 Gv. 2, 16-17).
Perché non dovrei amare ciò che Dio ha fatto? Ebbene scegli: vuoi amare le cose temporali ed essere travolto dal tempo insieme con esse? O non è meglio odiare il mondo e vivere in eterno con Dio? La corrente delle cose temporali ci trascina dietro a sé, ma il Signore nostro Gesù Cristo nacque come l'albero presso le acque del fiume. Egli assunse la carne, morì, risorse, ascese al cielo. Volle in certo modo mettere le sue radici presso il fiume delle cose temporali. Sei trascinato con violenza dalla forza della corrente? Attaccati al legno. Ti travolge l'amore del mondo? Stringiti a Cristo. Per te egli è sceso nel tempo, perché tu divenissi eterno. E' sceso nel tempo, ma rimanendo eterno. Si è inserito nel tempo, ma senza staccarsi dall'eternità. Tu invece sei nato nel tempo, e sei diventato schiavo del tempo a causa del peccato. Sei diventato schiavo del tempo a causa del peccato; egli invece è sceso nel tempo, per esercitare la misericordia nel perdono dei peccati. Come è enorme la differenza tra il reo e chi è venuto in carcere per visitarlo — perché entrambi si trovano nel carcere. Un uomo un giorno si reca a visitare un suo amico. Entrambi sembrano carcerati, ma grande è la differenza che passa tra loro e li distingue. Il processo imminente riempie di angoscia il primo, mentre un senso di umanità ha mosso il secondo. Così nella nostra condizione mortale: noi eravamo in carcere a causa di un reato, ed egli, mosso da misericordia, è sceso fino a noi, è venuto a trovare, in veste di redentore, chi era prigioniero. Non è venuto ad opprimerci. Il Signore ha versato per noi il suo sangue, ci ha redenti, ha trasformato la nostra speranza. Mentre portiamo ancora con noi la carne mortale, possiamo alzare gli occhi a guardare la nostra immortalità futura; mentre ancora veniamo sballottati dai flutti del mare, abbiamo già fissato in terra l'ancora della speranza. 


La vera Sposa ama lo Sposo più dell'anello donatole
11. Perciò non amiamo il mondo, né le cose del mondo. Queste sono: i desideri della carne, le concupiscenze degli occhi e le ambizioni terrene. Tre, dunque, le concupiscenze. Ma nessuno dica: non è opera di Dio tutto ciò che è nel mondo? Non sono opera di Dio il cielo, la terra, il mare, il sole, la luna, le stelle, lo splendore dei cieli? Ed i pesci, non sono l'ornamento del mare? Così dicasi degli animali, degli alberi, degli uccelli, per quanto riguarda la terra. Queste realtà sono nel mondo e le ha fatte il Signore. Perché allora non dovrei amare ciò che Dio ha fatto? Lo Spirito del Signore ti aiuti a vedere realmente perché queste cose son buone, ma guai a te se amerai le creature ed abbandonerai il Creatore. Queste cose ti appaiono belle, ma quanto più bello sarà l'autore della loro bellezza? Cerchi di comprendermi la vostra Carità. I paragoni possono servire ad istruirvi, affinché Satana non vi tragga in inganno, presentandovi la solita obiezione: — riponete la vostra felicità nelle creature; perché mai Dio le avrebbe create se non per la vostra felicità? Molti si lasciano persuadere a loro perdizione e dimenticano il Creatore: quando delle creature si fa un uso smodato, si reca offesa al Creatore. Di costoro dice l'Apostolo: "Onorarono e servirono le creature invece del Creatore, che è benedetto nei secoli" (Rom. 1, 25). No, Dio non ti proibisce di amare le sue creature, ti proibisce di amarle come ultima felicità. 


Stimale, lodale, ma per amare il Creatore.
Fratelli, se uno sposo si fa un anello destinato alla sposa e questa ama di più l'anello che non il suo sposo che lo costruì, forse che attraverso quel dono non risulta che la sposa ha un cuore adultero, anche se essa ama ciò che è dono del suo sposo? Certo essa ama ciò che ha fatto il suo sposo, ma se dicesse: —a me basta il suo anello e non mi interessa affatto di vedere lui, che sposa sarebbe mai costei? Chi non detesterebbe la sua stoltezza? Chi non porrebbe sotto accusa quest'animo di adultera? Invece del marito, tu che sei la sua sposa, ami l'oro, ami un anello. Se tali sono i tuoi sentimenti, che ami un anello invece del tuo sposo e lui non vuoi neppure vederlo, dovremmo dedurre che egli ti avrebbe dato questo dono non come legame d'amore, ma per perderti. Lo scopo per cui un fidanzato offre un dono invece è di ottenere l'amore della sposa, per mezzo di quel dono. Dio ti ha dunque dato le cose create, perché tu amassi chi le ha fatte. Egli ti vuole dare assai di più, vuol darti se stesso, che queste cose ha create. Ma se avrai amato le cose, pur fatte da Dio, se avrai trascurato il loro Creatore, per amare il mondo, il tuo non potrà essere giudicato altro che un amore adultero. 



Significato del termine "mondo"
12. Col termine "mondo" vengono indicati non soltanto il cielo e la terra, le cose visibili ed invisibili, opere tutte del Signore, ma anche gli abitatori del mondo, così come il termine "casa" indica tanto l'edificio come i suoi abitanti. A volte ci capita di lodare la casa ma di biasimare i suoi abitanti. Diciamo: questa casa è bella, e ricca di marmi e di ornamenti. Ma possiamo anche dire, con altro significato: questa casa è buona, nessuno vi patisce ingiustizie, non vi avvengono rapine, né oppressioni. In questo caso, non lodiamo le pareti della casa ma i suoi abitanti; e tuttavia sia nel primo come nel secondo caso, noi usiamo lo stesso identico termine di "casa". Ora tutti coloro che amano il mondo - e quanti lo amano in esso abitano, come nel cielo abitano coloro che amano il cielo, anche se nel corpo camminano sulla terra - tutti costoro che amano il mondo vengono indicati col termine "mondo". Queste sono le loro tre aspirazioni: i desideri della carne, la concupiscenza degli occhi, l'ambizione terrena. Desiderano mangiare e bere, fornicare e darsi ad ogni voluttà. Ma queste cose non possono godersi con misura? Quando vi diciamo: "Non amate queste cose", intendiamo forse dirvi che non dovete nè mangiare, né bere, né procreare figli? No certamente: non è questa la nostra intenzione. Dobbiamo però usare moderazione, secondo l'idea del Creatore, affinché queste creature non abbiano a tenerci legati, se troppo le amiamo. Non dobbiamo amare per il solo piacere le cose che ci sono state date per nostro semplice uso. Ma poniamo il caso che vi troviate di fronte a due possibilità e siate così messi alla prova: vuoi essere giusto o ricco? Io non ho nulla per vivere - tu dici -, non ho nulla da mangiare, nulla da bere e non posso avere queste cose necessarie alla vita, se non commettendo azioni cattive! Non sarà meglio per te amare quel bene che non si perde, piuttosto che commettere il male? Sai misurare il lucro che ti viene dal denaro e non t'avvedi del danno che la tua fede subisce. Questo appunto vuol dirci Giovanni quando accenna al "desiderio della carne", cioè a tutte quelle realtà che sono in rapporto col nostro corpo, quali il cibo, gli amplessi sessuali e altre cose del genere.