QUICUMQUE VULT SALVUS ESSE, ANTE OMNIA OPUS EST, UT TENEAT CATHOLICAM FIDEM

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venerdì 7 settembre 2012

Salita del Monte Carmelo S.Giovanni della Croce




San Giovanni della Croce, Dottore della Chiesa
Salita del Monte Carmelo

Capitolo IV
Ove si spiega quanto sia necessario all’anima attraversare realmente questa notte oscura, che consiste nella mortificazione dei sensi, al fine d’incamminarsi verso l’unione con Dio.


1. Per attingere l’unione con Dio è necessario che l’anima passi attraverso questa notte oscura, cioè attraverso la mortificazione degli appetiti e la rinuncia a tutti i piaceri derivanti dai beni sensibili, per il seguente motivo: tutte le affezioni che nutre per le creature sono tenebre fitte dinanzi a Dio. Fino a quando l’anima ne è avvolta, non potrà essere illuminata e posseduta dalla pura e semplice luce di Dio. Essa deve, dunque, per prima cosa, liberarsene, perché la luce non può stare insieme alle tenebre. San Giovanni, infatti, afferma: Tenebrae eam non comprehenderunt, cioè: Le tenebre non poterono accogliere la luce (Gv 1,5).

2. La ragione di ciò, secondo quanto insegna la filosofia, sta nel fatto che due contrari non possono coesistere in uno stesso soggetto. Ora, le tenebre, cioè l’attaccamento che si ha per le creature, e la luce, che è Dio, sono contrari e tra loro non vi è alcuna somiglianza o rapporto di sorta, come insegna Paolo rivolgendosi ai Corinzi: Quae conventio lucis ad tenebras?, cioè: Quale rapporto vi può essere tra la luce e le tenebre? (2Cor 6,14). Ne segue che la luce della divina unione non può stabilirsi in un’anima, se prima questa non si libera da tutte le sue affezioni.

3. Per provare meglio quanto ho detto, occorre ricordare che l’affezione e l’attaccamento che l’anima nutre per le creature la rendono simile a queste, e quanto più grande è l’affezione tanto più essa è resa uguale e simile, perché l’amore crea somiglianza tra chi ama e l’oggetto amato. Per questo motivo Davide, parlando di quelli che riponevano il loro affetto negli idoli, disse: Similis illis fiant qui faciunt ea, et omnes qui confidunt in eis, cioè: Sia come loro chi li fabbrica e chiunque in essi confida (Sal 113,8). Chi ama, quindi, la creatura, si pone al livello della creatura e, in qualche modo, anche più in basso, perché l’amore non solo rende uguali, ma assoggetta l’amante all’oggetto amato. Così, quando l’anima ama qualcosa al di fuori di Dio, si rende incapace della pure unione con Dio e della trasformazione in lui. La bassezza delle creature è, infatti, distante dalla grandezza del Creatore molto più che le tenebre dalla luce. Tutte le cose della terra e del cielo, paragonate a Dio, sono un nulla, secondo quanto afferma Geremia: Aspexi terram, et ecce vacua erat et nihil; et caelos, et non erat lux in eis: Guardai la terra, ed ecco solitudine e vuoto; i cieli, e non v’era luce (Ger 4,23). Quando il profeta dice di aver veduto la terra vuota, vuol far capire che tutte le creature della terra e la stessa terra sono un nulla; quando dice di aver guardato i cieli e di averli visti senza luce, vuol dire che tutte le fonti di luce del cielo, paragonate a Dio, sono pura tenebra. Di conseguenza si può affermare che, se tutte le cose create sono un nulla e l’affezione che l’anima nutre per esse è meno di nulla, esse costituiscono un ostacolo e non permettono la nostra trasformazione in Dio. Difatti le tenebre sono nulla e meno di nulla perché sono una privazione della luce. Pertanto, come chi è avvolto dalle tenebre non può accogliere la luce, così non può accogliere Dio l’anima che ripone la sua affezione nelle cose create; finché non se ne sarà distaccata, non potrà possederlo quaggiù per trasformazione pura d’amore, né lassù mediante la visione beatifica. Per maggior chiarezza parlerò di ciò più diffusamente.

4. Tutte le cose create, paragonate all’infinito essere di Dio, sono un nulla. Perciò anche l’anima che ripone in esse il suo affetto, di fronte a Dio è nulla e meno di nulla, perché, come ho detto, l’amore non solo crea uguaglianza e somiglianza, ma colloca colui che ama al di sotto dell’oggetto amato. In nessun modo, quindi, quest’anima potrà unirsi all’essere infinito di Dio, poiché il non essere non può stare assieme all’essere. Offro alcune esemplificazioni per maggior concretezza. Tutta la bellezza delle creature, paragonata a quella infinita di Dio, è infima bruttezza, come afferma Salomone nel libro dei Proverbi: Fallax gratia, et vana est pulchritudo: Fallace è la grazia e vana la bellezza (Pro 31,30). Così, l’anima, che è attaccata alla bellezza di qualsiasi creatura, è estremamente brutta dinanzi a Dio. Pertanto quest’anima che è brutta non potrà trasformarsi nella bellezza divina, dal momento che la bruttezza non può stare assieme alla bellezza. Ogni grazia e gentilezza delle creature, a confronto con quelle di Dio, sono estrema villania e rozzezza. Perciò l’anima che si affezione alle grazie e alle gentilezze delle creature è estremamente grossolana e scortese; non potrà, quindi, essere capace della grazia e delle bellezza infinita di Dio, perché chi è senza grazia è infinitamente distante da Colui che è la stessa grazia. Ogni bontà delle creature di questo mondo, paragonata a quella infinita di Dio, potrebbe essere chiamata malizia. Solo Dio, infatti, è buono (Lc 18,19). L’anima, quindi, che ripone il suo affetti nei beni di questo mondo, è sommamente cattiva di fronte a Dio. Pertanto, come la malizia non può contenere la bontà, così quell’anima non potrà unirsi a Dio somma bontà. Tutta la sapienza del mondo e la scienza degli uomini, paragonate alla sapienza infinita di Dio, sono pura e somma ignoranza, come scrive san Paolo ai Corinzi: Sapientia huius mundi stultitia est apud Deum: La sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,19).

5. Perciò ogni persona che si appoggiasse sulla propria scienza e capacità per giungere all’unione con Dio, sarebbe sommamente ignorante di fronte a Dio, dalla cui sapienza resterà molto distante. L’ignoranza, infatti, non sa cosa sia la sapienza, come afferma san Paolo, dal momento che tale sapienza è stoltezza agli occhi di Dio. Difatti coloro che si ritengono sapienti sono molto ignoranti davanti a Dio. Di essi dice così l’Apostolo, scrivendo ai Romani: Dicentes enim se esse sapientes stulti facti sunt, cioè: Mentre si dichiaravano sapienti, sono diventati stolti (Rm 1,22). Soltanto coloro che si fanno piccoli e ignoranti possiedono la sapienza divina. Messo da parte il loro sapere, servono Dio con amore. Tale genere di sapienza insegna lo stesso Paolo quando scrive ai Corinzi: Si quis videtur inter vos sapiens esse in hoc saeculo, stultus fiat ut sit sapiens; sapientia enim huius mundi stultitia est apud Deum, cioè: Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente; perché la sapienza di questo mondo è stoltezza davanti a Dio (1Cor 3,18-19). L’anima, quindi, per arrivare a possedere la sapienza di Dio, deve passare attraverso il non sapere e non attraverso il sapere.

6. Ogni genere di dominio e di libertà del mondo, paragonati con la libertà e il dominio dello spirito di Dio, sono somma soggezione, angoscia e schiavitù. Perciò l’anima che si attacca agli onori o ad altre cose del genere e che cerca libertà per le sue affezioni, è da Dio considerata e trattata non come figlia, ma come persona infima, prigioniera delle sue passioni. In realtà non ha voluto seguire i dettami del Signore che c’insegna così: chi vuol essere il più grande si faccia il più piccolo e chi vuole essere piccolo sarà fatto grande (cfr. Lc 22,26). L’anima, quindi non potrà pervenire alla vera libertà di spirito, raggiungibile nell’unione divina, perché la schiavitù è assolutamente incompatibile con la libertà; quest’ultima, a sua volta, non può abitare in un cuore libero, come quello del figlio. Per questo motivo Sara chiese a suo marito Abramo di cacciare via la schiava insieme a suo figlio, affermando che questi non poteva essere erede insieme al figlio della donna libera (Gn 21,10).

7. Tutti i piaceri e le dolcezze che la volontà prova nei beni creati, paragonati con quelli di Dio, sono soltanto pena, tormento e amarezza. Chi, dunque, ripone in essi il proprio affetto, è ritenuto degno di massima pena, di tormento e di amarezza dinanzi a Dio. In questo modo, egli non potrà pervenire alle gioie dell’unione con Dio. Tutte le ricchezze e la gloria del creato, messe a confronto con la ricchezza che è Dio, sono povertà e miseria estrema. L’anima che le ama e le possiede è estremamente povera e miserabile di fronte a Dio. Per questo motivo non potrà pervenire al vero stato di ricchezza e di gloria, che consiste nella trasformazione in Dio, perché la sua miseria e la sua povertà distano infinitamente da Colui che è sommamente ricco e glorioso.

8. La Sapienza divina, dolendosi, perciò, di queste persone che si abbrutiscono, si fanno spregevoli, miserabili e poveri per amore di ciò che nel mondo ritengono bello e ricco, nel libro dei Proverbi li apostrofa dicendo: O viri, ad vos clamito, et vox mea ad filios hominum. Intelligite parvuli astutiam, et insipientes animadvertite. Audite, quia de rebus magnis locutura sum. E più avanti aggiunge: Mecum sunt divitiae et gloria, opes superbae et iustitia. Melior est fructus meus auro et lapide pretioso, et genimina mea argento electo. In viis iustitiae ambulo, in medio semitarum iudicii, ut ditem diligentes me, et thesauros eorum repleam. Il che vuol dire: A voi, uomini, io mi rivolgo, ai figli dell’uomo è diretta la mia voce. Imparate, inesperti, la prudenza, e voi, stolti, fatevi assennati. Ascoltate, perché dirò cose elevate… Presso di me c’è ricchezza e onore, sicuro benessere ed equità. Il mio frutto vale più dell’oro, dell’oro fino, il provento (e le mie generazioni, ossia ciò che voi generate per mezzo mio nelle vostre anime) più dell’argento scelto. Io cammino sulla via della giustizia e per i sentieri dell’equità, per dotare di beni quanti mi amano e riempire i loro forzieri (Pro 8,4-6.18-21). Con tali parole la Sapienza divina si rivolge a tutti quelli che ripongono il loro cuore e l’affetto in qualunque bene creato, come ho già detto. Li chiama piccoli, inesperti, perché si rendono simili a ciò che amano, che è poca cosa. Per questo li avverte di essere prudenti e di prendere in considerazione le grandi cose di cui essa parla, e non le cose piccole come sono loro. Continua col dire che le grandi ricchezze e la gloria che essi amano si trovano non dove essi pensano, ma con e nella sapienza, ove abitano, altresì, le vere ricchezze e la giustizia. E se i tesori di questo mondo a loro sembrano superiori a qualunque altro bene, essa li invita a considerare che sono migliori i suoi tesori, perché il frutto che troveranno in questi ultimi sarà migliore dell’oro e delle pietre preziose. Aggiunge, infine, che quanto essa genera nelle anime è di gran lunga superiore all’argento puro che essi amano, cose che rappresentano ogni genere di affetto che si può nutrire in questa vita.



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